Archivio mensile:Febbraio 2012

Cassazione: guida in stato di ebbrezza per l’ubriaco che dorme in auto in sosta

Se la “fermata” sarebbe “guida”, mai sarebbe trasgredibile il divieto di “fermata”, se la “guida” sarebbe “fermata”, mai sarebbe trasgredibile il divieto di guida, i due divieti coesisterebbero e si annullerebbero a vicenda, senza sosta.
A tale stregua, peraltro, diverrebbe possibile mettere alla guida (de jure, e con ciò punirlo), il conducente che fosse in “fermata” (finanche in attesa della propria riabilitazione psicofisica, al fine della ripresa corretta della guida),ed anzi dormisse….
Lo pensa Cassazione penale, convinta al punto di condannare la guida da fermo.
Ebbene, quando la fermeremo, le impediremo di guidare, noi che crediamo nella distinzione dei due stati, nella necessità di applicarla?
Pietro Diaz

l’articolo di Anna Costagliola su www.diritto.it

Una sentenza progressiva sul “dolo eventuale”

La “aggiunta” giurisprudenziale, connivente o complice la “dottrina” più opaca, all’unica specie codificata, il “dolo intenzionale” (“secondo l’intenzione”: art. 43.1 cp), del “dolo eventuale”, dopo sessantanni (circa) di oltranzismo, della mistificazione di esso nella colpa (al precipuo fine di infliggere all’illecito colposo la maggiore pena dell’illecito doloso, di punire “esemplarmente” quanto ad avviso del giudice, benché non della legge, lo meritasse), oggi, con la sentenza esposta, ha un ripensamento…

non basterebbe (più) la “accettazione del rischio”, dell’evento, ma occorrerebbe l'”accettazione” di questo…
alla invenzione extralegale del “dolo eventuale” (figura storica, in verità, ma operante, già, in tutt’altri contesti giuridici…) era (ovviamente) seguita quella dei suoi strumenti concettuali, (appunto) la “accettazione”, del “rischio” o dell’ “evento”…

pertanto, del tutto estranea, anch’essa, agli elementi legali del dolo, come della colpa (della preterintenzione di quant’altro)… del primo, (solo) la “coscienza” e la “volontà” della azione (o della omissione), per art. 42.1 cp, e (solo) la “prev”isione e la “vol”izione dell'”evento”, per art. 43 cit; della seconda, (anche) la incoscienza e la involontà (“volontà”) della azione ( o della omissione), per art. 43.3 cit., e (anche) la imprevisione (ma solo) la involontà, dell'”evento”

ove la “accettazione” (del “rischio” o dell’ “evento”), come si vede, è del tutto ignota, ad essi, quale “elemento psicologico” (in tutto o in parte) di qualunque reato…

per ciò, di essa, se ne (sarebbe potuto e ) potrebbe dire non più che colloquialmente, e comunque (pur deprecabilmente) quale sinonimo, mai quale eteronimo, di quelli…

potendo per nulla, infatti, essa, teorizzare la differenza del dolo dalla colpa, dell’illecito doloso dall’illecito colposo… sia quando, quale “accettazione del rischio”, non abbia un evento con cui differenziarli (“nei reati di pericolo”)… sia quando, quale “accettazione dell’evento”, non abbia un “rischio”, con cui differenziarli (“reati di danno”)…

d’altronde, quando l’ “accettazione” si dedicasse ad operare (esclusivamente) su essi (“rischio ed evento”), impedirebbe all’unico “elemento psicologico” (legale) differenziale dei due illeciti, la “volontà” (la previsione potrebbe essere comune a questi, come sopra cennato) di fungere… la volontà avendo sempre (nell’illecito doloso), avendo mai (nell’illecito colposo), ad oggetto, essi…

e non solo le impedirebbe di agire (concretamente), ma ne saboterebbe irrimediabilmente la funzione (sistematica) se, come è detto nella sentenza, l’ “accettazione dell’evento” darebbe “dolo eventuale” anche se, l’ “evento”, fosse “non direttamente voluto”… quindi, anche se, per legge (art. 43.3) , ciò darebbe colpa… e anche se, per giurisprudenza, dolo e colpa, per ciò, diverrebbero indistinguibili…

e se, la distinzione, fosse affidata all’avverbio “non direttamente voluto” , l’ “evento”, sottinteso che, “indirettamente”, esso sarebbe voluto… lo si dovrebbe sottintendere anche nella colpa, del cui evento potendosi ugualmente dire che è “non direttamente voluto”;

mentre, se si sottintendesse che, nella colpa, non solo “direttamente” ma anche “indirettamente”, l’evento, non sarebbe voluto, andrebbe spiegato come, e su quali basi (logiche o testuali ), ciò dovrebbe accadere…

dunque, la “accettazione” ha teorizzato il “dolo eventuale” risucchiando tutti gli “elementi psicologici” legali, quelli inerenti la azione (o la omissione), inerenti l’evento, inerenti il rapporto tra essi… e tanto quelli costituenti il dolo quanto quelli costituenti la colpa…

risucchiandone, per ciò, anche gli (intrinseci) elementi “materiali”, la azione (la omissione), l’evento, tutto l’ “elemento oggettivo” del reato (tanto che, nella sentenza, il substrato della “accettazione”, in concreto la azione del conducente la vettura omicidiaria, è sostituito da una omissione: “non desistendo l’agente dalla sua condotta….”)…

ed in quanto elemento “psichico”, interiore (se non “intimo”), conoscibile solo “psicologando”, ne ha smaterializzato l’accertamento…

tal (completa) dissoluzione, invero, a causa del (e causando) la illusione che le differenze tra i due illeciti ( e tra essi ed altri) fossero traibili dall’uso, della “accettazione” (benché talora accettabilmente sinonimo, anziché eteronimo, di “prev”isione, pur solertemente distinta in “astratta”, nell’uno, in “concreta”, nell’altro) del “rischio” o dell’evento…

come se, il reato, non fosse fatto (anche) di azione ( o di omissione)…

o come se, il “rischio” o l’evento, ad esse fossero (causalmente) sconnessi…

o come se. il “rischio” o l’evento, nei due illeciti, fossero tipologicamente identici…,

e se, quindi, identiche, tipologicamente, fossero la azione ( o la omissione)…

e se quindi, identico fosse il rapporto tra essi…

mentre (tacendo di tante altre differenze, qui nemmeno accennabili)… l’azione ( o la omissione nel suo “circostante”, l’aliud agere) che “inten”da, e che per ciò sia “inten”ta, sia diretta “secondo la intenzione” (dell’agente che la disponga, con dolo inerente),a causare il “rischio” o l’evento…, ben cosciente e prevedente e volente ciò, quale sua conseguenza…

(essa) nient’affatto somiglia, tipologicamente, alla azione ( o la omissione nel suo circostante, l’ aliud agere) che non “inten”da, e che per ciò non sia “inten”ta, non sia diretta “secondo la intenzione” (dell’agente che la disponga) a causare il “rischio” o l’evento, quale sua conseguenza… ben cosciente, e volente, anche se (talora) prevedente (art. 43.3., 61.3 cp)ciò…, o (tanto più) se incosciente e involente (e ovviamente) imprevedente ciò (per atti automatici o riflessi o subcoscienti…)….

perchè, ciò, (immancabilmente) “contro l’intenzione” (art. 43.3.cp);

come nient’affatto somigliano, tipologicamente, il “rischio” o l’evento che (rispettivamente) conseguano o seguano esse..

e nient’affatto somigllano, tipologicamente, i rapporti, di conseguenza o di seguenza (rispettivamente), di essi ad esse;

(in parafrasi), differiscono tanto quanto il fare ed il cagionare, alcunché… e tanto quanto questo, quale effetto dell’uno o dell’altro… e tanto quanto il (rispettivo) rapporto di effettualità tra essi…

un differire tipologico ( morfologico, ontologico, nomologico), specchio di quello legale, dell’illecito doloso dall’illecito colposo…

tutt’altro, ovviamente, da quanto esponga la giurisprudenza (che comunque, col passo avanti, della sentenza, verso l’evento, ha imposto due passi indietro al “dolo eventuale”), a cui capacità ( e volontà) di adesione alla complessità (in cui pure opera imperativamente ) è racchiudibile nell’incitamento, della requisitoria del PG…,

per il “dolo eventuale” ( in un comune “sinistro stradale”…)….

contro “il modello giovanile della cultura della morte”…

per ” il principio della sacralità della vita”…

Reato di ricettazione, la Suprema corte scioglie i dubbi sull’elemento soggettivo che lo configura.
Sì al dolo eventuale, ma non può desumersi solo da un mero sospetto.
Sezioni unite penali, sentenza n. 12433/10; depositata il 30 marzo.
Il reato di ricettazione è configurabile anche solo in presenza di dolo eventuale, ma l’accertamento di un siffatto elemento soggettivo non può basarsi su semplici motivi di sospetto. Così hanno esordito le Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza 12433/10, che ha segnato un momento risolutivo per tutti i quesiti e le distinte prospettive costruite attorno alla questione di specie. Da tempo si erano cristallizzate su quest’argomento due correnti giurisprudenziali contrapposte. Un primo orientamento, tendente a negare la compatibilità del dolo eventuale con il delitto di ricettazione, ha fatto ricadere le ipotesi caratterizzate da un tale elemento psicologico sotto la categoria dell’art. 712 c.p., ossia “incauto acquisto”. Secondo quest’ultima corrente l’elemento necessario per la ricettazione esigeva la piena consapevolezza della provenienza delittuosa del bene, non essendo sufficiente la rappresentazione dell’eventualità che la cosa acquistata o ricevuta fosse stata il frutto di un delitto, perché si sarebbe tradotto in un mero dubbio. Su una sponda opposta si è installato l’ulteriore orientamento giurisprudenziale che, in virtù del principio per cui le contravvenzioni (fra cui rientra il reato di incauto acquisto) sono di natura esclusivamente colposa, ha ravvisato un’ipotesi di ricettazione in tutti i casi in cui la condotta dell’agente era sorretta da un dolo anche solo eventuale. In un contesto in cui l’adesione all’una o all’altra delle tendenze giurisprudenziali è derivato, per la maggior parte dei casi, da scelte non argomentate che hanno prescisso da un dibattito sulle caratteristiche del dolo eventuale, il primo punto da chiarire ha riguardato l’applicabilità della categoria del dolo eventuale, elaborato principalmente nella materia dei reati di evento, ai reati non causalmente orientati. Secondo gli “ermellini”, l’elemento psicologico del reato è costituito, prima che da una componente volitiva, da una componente rappresentativa che investe il fatto nella sua complessità. Dunque, sono ricompresi non solo gli effetti della condotta ma anche gli altri elementi della fattispecie. Perciò, se si ritiene che il dolo sia costituito dalla rappresentazione e volizione del fatto anti-giuridico o anche, nel caso del dubbio, dalla sua accettazione, alla quale si ricollega la particolare costruzione del dolo eventuale, non c’è ragione di distinguere il caso in cui il dubbio cade sulla verificazione dell’evento da quello in cui cade sul suo presupposto. Sia in un caso che nell’altro l’agente si rappresenta la possibilità di commettere un delitto e ne accetta la realizzazione. Già in dottrina è stato affermato che l’agente deve rappresentarsi l’esistenza dei presupposti come certa o come possibile , accettando l’eventualità della loro esistenza, sicché ci si può trovare in presenza di dolo eventuale quando chi agisce si rappresenta come possibile (ma non certa) l’esistenza di presupposti della condotta e, pur di non rinunciare ai vantaggi che se ne traggono, accetta che il fatto possa verificarsi. Fatta una tale valutazione, il passo successivamente compiuto dai giudici di legittimità ha tracciato i limiti che definiscono il rapporto tra i reati di ricettazione e di incauto acquisto. Secondo la Cassazione nessuno dei due orientamenti precedentemente esposti è da condividere pienamente: entrambi giungono a conclusioni esasperate. Infatti una corrente giurisprudenziale arriva all’eccesso di espungere dalla fattispecie ex art. 712 c.p. anche i casi in cui l’agente abbia un mero sospetto. Al contrario, l’ulteriore orientamento fa ricadere ingiustificatamente nella categoria dell’incauto acquisto tutta l’area che il dolo eventuale potrebbe occupare nel reato di ricettazione, sicché il relativo delitto sarebbe prospettabile solo nei casi in cui l’agente abbia la certezza della provenienza illecita del bene ricevuto, mentre sarebbe configurabile unicamente la contravvenzione ex art. 712 c.p. in tutti i casi in cui, pur non essendoci elementi da cui trarre la certezza della provenienza della cosa da delitto, l’agente sia ben consapevole della concreta possibilità che la cosa provenga da un’azione illecita e ne accetta il rischio. In particolare, sottolineano le Sezioni Unite, la differenza tra i due tipi di reato è strutturale: se si conviene che la contravvenzione sussiste anche quando, in presenza di motivi di sospetto, la provenienza illecita della cosa non viene accertata è ragionevole concludere che tale provenienza non faccia parte del relativo elemento soggettivo del reato. Ne consegue l’insostenibilità dell’assorbimento nell’incauto acquisto dei fatti di ricettazione sorretti da dolo eventuale. Sono, infatti, i motivi di sospetto tipizzati ce caratterizzano l’incauto acquisto. Una volta stabilito che la ricettazione può essere fondata anche sulle basi del dolo eventuale, ai giudici di legittimità resta da mettere in chiaro le modalità di accertamento dello stesso, posto che un tale elemento soggettivo non può desumersi da semplici motivi di sospetto. Per la ricettazione occorrono, infatti, circostanze più consistenti di quelle che danno semplicemente motivo di sospettare che la cosa provenga da delitto. Sicché un ragionevole convincimento che l’agente ha consapevolmente accettato il rischio della provenienza delittuosa può trarsi solo dalla presenza di dati di fatto inequivoci, che rendano palese la possibilità di una tale provenienza. In termini soggettivi ciò vuol dire che il dolo eventuale nella ricettazione richiede un atteggiamento psicologico che, pur non pretendendo il livello della certezza, si colloca su un gradino immediatamente più alto di quello del mero sospetto. In altre parole si richiede più di un semplice motivo di sospetto, rispetto al quale l’agente potrebbe avere un atteggiamento psicologico di disattenzione, noncuranza o mero disinteresse; mentre per la configurazione del dolo eventuale è necessaria una situazione fattuale di significato inequivoco che impone in capo all’agente una scelta consapevole tra l’agire o il non agire. Volendo utilizzare i termini propri della figura del dolo eventuale elaborati in dottrina, si può concludere che nella ricettazione un siffatto dolo è ravvisabile quando l’agente, rappresentandosi l’eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuto la certezza.

Commento su www.jusdiaz.it

Giudice parte controesaminatrice ed esaminatrice? nota a sentenza ed a sua nota….

Il tema delle domande suggestive è stato ancora una volta ripreso dalla Corte di Cassazione in una recente sentenza (1) che ha ribadito il principio che il giudice (o un suo ausiliario) può porre al teste domande che suggeriscono la risposta non ostandovi alcun divieto legislativo.
L’affermazione di tale principio, secondo i giudici di legittimità, risiede nelle norme procedurali che disciplinano il contesto dell’esame incrociato.
Il divieto delle domande suggestive, sostiene la Suprema Corte, è circoscritto solo alle parti che hanno chiesto l’esame e a quelle che hanno un interesse comune ma non a quelle del giudice e del suo eventuale ausiliario.
Già in precedenza il Supremo Collegio si era occupato della questione che era stata risolta allo stesso modo: il divieto di porre domande suggestive non opera nell’esame condotto direttamente dal giudice poiché, si è anche sostenuto, non vi è il rischio di un precedente accordo tra il testimone e l’esaminante (quasi che tra il teste e le parti private vi sia sempre un accordo pregresso). (2)
Il processo penale accusatorio italiano nell’ambito della formazione della prova su tale aspetto mette a nudo le sue debolezze e le sue deficienze.
Infatti, se l’art. 111 della Carta Costituzionale sancisce che ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti a giudice terzo ed imparziale, le norme che disciplinano l’esame testimoniale (artt. 498, 499 c.p.p.), ove consentono un’intromissione senza limiti del giudice terzo ed imparziale, non possono che ritenersi non in linea con il precetto costituzionale soprarichiamato.
Il nostro metodo esaminatorio, in virtù di tali orientamenti giurisprudenziali, sembrerebbe quindi non “perfetto” e non “aderente” alla norma costituzionale.
Nella formazione della prova, è noto, il legislatore impone alle parti che hanno chiesto l’esame e a quelle che hanno un interesse comune di muoversi con passo felpato al fine di rendere più genuina possibile la ricostruzione del fatto.
E ciò sotto l’attenta regìa e vigilanza del giudice terzo ed imparziale che deve evitare la proposizione di domande suggestive e di quelle che possono nuocere alla sincerità delle risposte.
La regola impone al giudice di intervenire durante l’esame, anche d’ufficio, per assicurare la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni.
L’invadenza del giudice durante l’esame testimoniale era stata avvertita dal legislatore tant’è che nel 1999 è intervenuto per modificare il secondo comma dell’art. 506 c.p.p. prevedendo che il presidente può rivolgere domande, ai testimoni, ai periti ecc.. alle parti esaminate solo dopo l’esame ed il controesame.
Tale norma, però, nella pratica non viene quasi mai osservata soprattutto perché priva di sanzione.
Si assiste il più delle volte a questa generale tendenza da parte del giudice ad intromettersi durante l’esame incrociato che compromette spesso la sincerità delle risposte così sviando la parte interessata dall’obiettivo che si prefiggeva di raggiungere e demolendo, talvolta, la strategia accusatoria o difensiva.
Tutte le ragioni che sono sottostanti al divieto di domande suggestive nel corso dell’esame (assicurare la genuinità dell’acquisizione degli elementi di prova) vengono in un solo colpo demolite dal potere attribuito al giudice di porre domande senza alcun limite.
Nessuna invocazione, quindi, di inutilizzabilità della prova, ex art. 191 c.p.p., può essere fatta se si ritiene che la disciplina degli artt. 498 e 499 c.p.p. non riguarda il giudice “terzo ed imparziale”.
Il potere accordato al giudice di porre domande, di indicare i temi di prova nuovi o più ampi, utili per la completezza dell’esame (ex art. 506 c.p.p.) non può essere visto solo come un intervento dell’ultimo momento teso a colmare le lacune dell’esame incrociato, atteso che il II° comma del citato art. 506 c.p.p., facultando il presidente a porre domande senza alcun divieto, consente di stravolgere il principio costituzionale secondo cui la prova si forma nel contraddittorio delle parti dinanzi a giudice terzo ed imparziale.
Le parti durante la cross examination spesso subiscono impotenti l’introduzione da parte del presidente del collegio di domande suggestive e talvolta nocive accompagnate da toni severi che incutono timore al teste specie quando non sembra allineato alla tesi accusatoria, in barba al principio di presunzione di non colpevolezza.
Ma quello che più può essere considerato devastante è l’esame del minore condotto dal presidente o di un suo ausiliario quando non si osservano le regole, anche non codificate, di massima cautela che l’età del soggetto impone. Quindi, mentre da un lato il legislatore ha inteso proteggere il minore nel suo racconto, specie nei delitti sessuali e ciò per evitargli altre conseguenze negative psicologiche, dall’altro, il consentire domande che possono alterare ed influenzare il ricordo, comporta un netto squilibrio che inevitabilmente inquina la prova.
Ora, se è vero che i principi posti dalla “Carta di Noto” non hanno alcun valore normativo, trattandosi di suggerimenti diretti a garantire l’attendibilità…. delle dichiarazioni del minore e la protezione psicologica dello stesso, è anche vero però che un esame del minore condotto dal presidente o da un suo ausiliario deve pur sempre seguire le regole di cui agli artt. 498 e 499 c.p.p.. (3)
Invero, l’art. 498 4° comma c.p.p. dispone che l’esame testimoniale del minorenne è condotto dal presidente su domande e contestazioni proposte dalle parti cosicché il presidente rappresenta soltanto la longa manus della parte che ha chiesto l’esame del minore con la conseguenza che egli deve non ammettere quelle domande che sono suggestive o che nuocciono alla sincerità.
Consentire allo stesso o al suo ausiliario di muoversi liberamente durante il racconto del minore non può che costituire una chiara alterazione della formazione della prova.
Per evitare tale anomalia si dovrà assistere ad un radicale mutamento del pensiero di chi ancora sostiene che il processo penale accusatorio italiano è improntato più che ad un processo delle parti alla ricerca spasmodica di una verità; e fin quando nel nostro ordinamento troveranno alloggio artt. 506 2° comma e 507 c.p.p. sarà difficile eliminare le incongruenze del sistema che portano ad una grave alterazione della formazione della prova.
Il giudice delle leggi è intervenuto più volte sul tema se la facoltà del giudice di intervenire attraverso il potere di integrazione della prova sia costituzionalmente legittimo nell’ambito dell’esercizio del diritto della prova riconosciuto alle parti.
Si è sostenuto da più parti che il nuovo codice processuale penale “non tenderebbe alla ricerca della verità ma solo ad una decisione correttamente presa in una contesa dialettica tra le parti, secondo un astratto modello accusatorio nel quale un esito vale l’altro, purchè correttamente ottenuto”.
Un processo penale, quindi, che vede il giudice meramente arbitro dell’osservanza delle regole di una contesa tra parti contrapposte, e il giudizio avrebbe la funzione di non accertare i fatti reali onde pervenire ad una decisione il più possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale, ma di attingere – nel presupposto di un’accentuata autonomia finalista del processo – quella sola “verità” processuale che sia possibile conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e nel rispetto di rigorose regole metodologiche e processuali coerenti nel modello.
Tale concezione, però, non era stata accettata prima dell’avvento del principio del giusto processo dal giudice delle leggi (cfr. sent. Corte Cost. 26-03-1993 n. 111) che richiamando il tessuto normativo positivo (la legge delega e i principi costituzionali di cui questa richiede l’attuazione) ha evidenziato che “fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità” (4).
Il fantasma dell’inquisitore, come è facile rilevare, è stato ed è sempre dietro l’angolo, anche se con la modifica costituzionale dell’art. 111 il giudice delle leggi ha, in un certo qual modo, invertito la rotta. (5)
S’impone, però, un intervento legislativo che delimiti i poteri del giudice durante l’esame incrociato, in quanto l’interpretazione data dalla Corte di Cassazione con la sentenza in commento, è estremamente lesiva della genuinità della prova testimoniale e non in sintonia con il principio del giusto processo.
In dottrina, è stato osservato che “il divieto di porre domande suggestive abbia il suo ambito operativo solo per l’esame diretto, ovvero per quello condotto dalla parte che abbia un interesse comune a quella richiedente, e come ciò abbia suo fondamento giustificativo nell’esigenza di garantire la genuinità della prova e di evitare che la possibile pregressa conoscenza dei fatti della parte richiedente, nonché l’astratta o anche solo potenziale comunione di intenti tra la stessa ed il teste, possa indurre l’esaminante a “guidare” l’esame verso un scopo predeterminato” (6).
Con ciò, com’è stato giustamente rilevato, si tende a scongiurare il pericolo che la parte che ha chiesto l’esame possa influenzare la risposta attraverso domande a cui il teste si limiti a rispondere con un sì o con un no. Mentre tale divieto non è posto per la parte che deve controesaminare in quanto il controesame assolve al compito di verifica dell’attendibilità del teste con funzioni distruttive e confutative (7).
Ma non si può, però, convenire con la stessa dottrina che sostiene che “se il controesame assolve alla funzione di verificare l’attendibilità del teste al fine di garantire la genuinità della prova (..) sarebbe assimetrico riconoscere solo alla parte controinteressata il potere di porre domande suggestive e non anche al presidente del collegio”. (8)
Dimentica tale concezione che ora il processo penale italiano, con la riforma costituzionale dell’art. 111, è più “accusatorio” di prima.
Infatti, perché mai dovrebbe ritenersi “assimetrico” vietare al giudice di porre domande in un sistema in cui la prova si appartiene alle parti? D’altronde il giudice non conosce il fatto e quindi non si comprende come egli possa far rilevare eventuali contraddizioni o colmare lacune nel racconto; egli, tra l’altro, non è portatore di alcun interesse contrapposto ad una delle parti.
Infine, il principio costituzionale (art. 111) del giusto processo non può consentire di spuntare le armi alle parti contendenti senza dire, poi, che il potere suppletivo del giudice è ridondante della vecchia concezione del giudice – inquisitore che non subisce alcun controllo quando pone domande che nuocciono alla sincerità delle risposte.
Conclusivamente, “è auspicabile che il presidente eviti domande che possano condizionare la risposta; e per altro verso, che il legislatore intervenga anche su questo nodo (..)” (9).
– Avv. Giuseppe DACQUI’ – aprile 2010
(1) Cass. Pen. Sez. III^, 28-10-2009 n. 9157
(2) Cass. Sez. III^, 12-12-2007 n. 4721, Muselli
(3) Tale principio è in controtendenza con gli altri arresti giurisprudenziali che hanno invece valorizzato la validità del metodo suggerito dalla “Carta di Noto” (cfr. Cass. Pen. Sez. IV^ 29-09-2006 n. 32281; Cass. Sez. III^ 18-09-2007 n. 852). Se ci trovassimo nel sistema di Common Low potremmo sostenere che si tratti di un caso di Overruling. Nella fattispecie, però, ci sembra un’abrogazione del precedente assolutamente immotivata.
(4) sent. Corte Cost. 26-03-1993 n. 111
(5) sentenze Corte Cost. n. 440/2000 e n. 32/2002
(6) Piero Silvestri – in Cass. Pen. n. 04 del 2009 pag. 1568
(7) ut supra
(8) ut supra pag. 1569
(9) Ettore Randazzo – Insidie e strategie dell’esame incrociato – pag. 116 – Giuffrè Editore 2008 “

Le “domande che tendono a suggerire le risposte”, dall’art. 499.3 c.p.p. escluse dall’ “esame” (art. 498.1 c.p.p.), incluse nel “controesame” (art. 498.2 c.p.p.), quando le rivolga il giudice come potrebbero non essere domande di controesame? e, poichè, queste, promanano congenitamente da una parte (quella che, o l’ac”comun”ato nell'”interesse” a quella che, ex art. 499.3 cit, non “ha chiesto la citazione del testimone”)… come potrebbero non rendere, il giudice, parte, controesaminatrice? le “domande che [non] tendono a suggerire le risposte”, (ovviamente, con le precedenti) incluse nel controesame, invariabilmente imposte all’esame, quando le rivolga il giudice (e lo sarebbero se rivolte al testimone affinchè vada verso le circostanze per cui fu citato, o verso circostanze simili, o altre ma nella stessa direzione tattica; al contrario le domande del controesame: la sentenza in questione nemmeno ha sospettato di avere l’onere teorico di, e di indicare come, distinguerle)… come potrebbero non essere domande di esame? e poichè, (anche) queste, promanano congenitamente da una (altra) parte (quella che, o l’ac”comun”ato nell’ “interesse” a quella che, ex art. 499.3 cit, “ha chiesto la citazione del testimone”).. come potrebbero non rendere il giudice (ancora) parte, esaminatrice? dunque, il giudice, controesaminatore od esaminatore, come ogni parte, e (necessariamente) secondo tattiche di parte, sarebbe, o potrebbe divenire, parte?

se la conclusione volesse descrivere (stoicamente) la realtà fattuale, quella veniente da un giudice burocraticamente (e per ciò funzionalmente) legato ad una (non ad ogni) parte (si sa quale…), sarebbe condivisibile… se volesse interpretare la realtà giuridica, lo sarebbe meno potendosi immaginare (almeno anche) che: la immanenza del divieto di domande di controesame o di esame, sul giudice, venga, anzitutto (per interpretazione della “intenzione del legislatore”: art. 12.1 “preleggi”) dalla posizione processuale di questo, “terzo e imparziale”, per ciò invariabilmente estraneo ( per principio in art. 111.2 cost) alle parti (altrimenti intraneo a tutte: vd dopo), e (ovviamente), per ciò, alle loro “mansioni” e relative tattiche (probatorie);

e comunque venga (anche per interpretazione “letterale”: art. 12.1 cit), dalle disposizioni inerenti (a cominciare da quella in art. 506.2 cpp), ove non è affatto scritto ( neppure in talune ambiguità espressive) che, le “domande” del giudice, sarebbero da controesame, da esame, sarebbero, cioè, domande-mezzo, di essi; e (tanto meno è scritto) che ne avrebbero i caratteri modali e funzionali

anzi è probabile, nella cogenza ermeneutica della suddetta posizione, che, esse, ex art.506.1.2 cit, potrebbero contenere soltanto “temi di prova nuovi o più ampi”, di quelli investiti dalle parti… temi che il giudice avrebbe facoltà di indicare a queste, a “complet”amento dei loro “esami” o di escutere direttamente, salva la facoltà, di queste, di concludere “l’esame”: (si noti incidentalmente) parola, questa, che se non indicasse, per “sineddoche” ( la parte per il tutto), esami e controesami (pregressi) delle parti, se cioè “inquadrasse” le domande del giudice, queste sarebbero, espressamente, di “esame”, non di “controesame” (d’altronde, contenendo temi che, “nuovi o più ampi”, gia intrinsecamente, perchè “innovativi”, sarebbero da esame, non da controesame), precluse, senza distinzione tra “domandanti”, ex art. 499.3 cit, alla “suggestività”;

e proprio essi, temi, perchè “innovativi”, e “comple”mentari, potrebbero riuscire a tenere il giudice nella sua posizione: quale organo, oltre (e per tutte) le parti, della funzione di “complet”amento, dell’esame e del controesame, non di attivazione (propria) di questi; così pure operante, d’altronde, ed alle stesse condizioni funzionali, per art. 507 c.p.p. , allorchè “completi” le prove delle (di tutte le) parti, (questa volta) “assu”mendo nuovi mezzi di prova”;

chiaro essendo, tuttavia, che le due facoltà or delineate, benchè sottraibili (contenutisticamente) alla nefasta presa della dottrina “collaborazionista”, “suggestiva” della sentenza in questione (“dottrina” che, solo quando riuscisse a concepire, essa anzitutto, la terzietà e la imparzialità del giudice, potrebbe trasmettergliele, affinchè meglio le apprenda ed eserciti), imbastardiscono l'”accusatorio puro”;

il quale per ciò, nell’aggravarsi della perversione della prassi, non potrebbe rinunciare alla loro espunzione legislativa ( o, alternativamente, all’irrigidimento, legislativo, delle condizioni della ricusazione del giudice, che lo rendano escludibile, dalla funzione dibattimentale, al minimo, disonesto o sprovveduto, cenno di gioco da una “parte”, e si sa quale…).

Pietro Diaz

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