Archivio mensile:Settembre 2014

La “associazione di tipo mafioso” nelle Corti italiane

Si propone il seguente ricorso per cassazione avverso una nota sentenza di una Corte cagliaritana (nell’occasione presieduta da un siciliano), quale riflessione critica, nella prima parte, sulla indifferenza, delle Corti italiane, alla “imputazione” quale oggetto intangibile della loro cognizione e decisione, eppure deformato o sformato o frantumato, a stura di un finalismo (subculturale e criminologico) accusatorio e incolpatorio, “pregiudicante”, e per ciò:

demolitore del ruolo (congenito) del diritto (processuale e sostanziale) e dei suoi istituti (tra i quali, appunto, l’imputazione), di argine (modale e contenutistico, subbiettivo ed obbiettivo, attivo e passivo) dei poteri e dei doveri giuridici della comunità generale e particolare (quella immediatamente avente che fare con esso);

devastatore, ad un tempo, del campo storico dello “Stato di diritto” (per ridare adito allo “Stato di polizia”);

postulatore di contatto diretto (tramite l’organismo, di “polmagistratura”, che lo nutre), non mediato dal diritto (se non lo pseudodiritto “giurisprudenziale”), col “fatto” “penale” che trascelga, per il suo trattamento (non “giurisdizionale, dunque, bensì “amministrativo”, “di polizia…”.

Nella seconda parte, (il ricorso quale riflessione critica) sulla indifferenza, completa (la sentenza sarà riportata testualmente e commentata via via), delle Corti, oltre che alla legge codificata, al metodo giuridico della sua interpretazione, alla teoria dottrinale basata su questa, al linguaggio proprio al discorso scientifico, in una parola, al “minimo giuridico” che identifichi la (moderna) “giurisdizione” (la ricognizione e la dichiarazione del diritto vigente)…

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prima parte

la configurabilità del reato di cui all’art. 416 bis nella condotta degli imputati”

Una sentenza che assuma solennemente in tanta epigrafe la responsabilità politica e culturale, prima che giuridica, addirittura storica, di impartire a sub culture di Sardegna mai vista e udita o immaginata forma di mafia, con azzardo sociologico e antropologico peraltro silente le sue ragioni perché del tutto ignaro della realtà sottesa (non una parola di e su questa, in fatti), benché essa sia il supporto naturalistico della fattispecie di associazione ex art. 416 bis c.p., fattispecie “aperta” come poche ( e quando si consideri che Cosa Nostra è ignota all’Isola fino al “nuragico”, che essa, non lieve in anni, fu la madre culturale di tutte le mafie italiche, che le associazioni mafiose comunque localmente denominate, quelle oggi aventi titolo e sorte giuridici e giudiziari, ne sono filiazione, si apprenderebbe bene che il suo substrato culturale, non un altro, è definibile finanche “elemento costitutivo “ di fattispecie);

una sentenza che assuma la responsabilità politica e culturale, prima che giuridica, di imporre all’Isola un “precedente”, fatalmente destinato a proliferare per “partenogenesi” (la “legge” dello stigma che genera stigma giudiziario e sociale), la responsabilità storica di marchiarla a vita, avrebbe dovuto chiederne permesso alla imputazione, fonte e criterio e campo di tutti i suoi termini e giudizi e decisioni (quando la sentenza non si connetta alla imputazione reale, l’architrave del processo si rompe, e tutto rovina disastrosamente, anche sulla umanità coinvolta) e averlo.

Ebbene la imputazione glielo avrebbe negato:

1. Nel capo AI, (promozione) costituzione direzione organizzazione della “associazione per delinquere di stampo mafioso..”, condotte (ed eventi inerenti) , cioè, esigenti (naturalisticamente e) giuridicamente (almeno) tre persone, si compiono ed avvengono tra due persone (Pis, Pir)!

1.1 d’altronde sarebbero condotte ed eventi (generativi e formativi) di “associazione a delinquere di stampo mafioso”, estranea al lessico della norma che riferirebbe nella denotazione che ne fanno i due attributi, separati o insieme (a delinquere… di stampo…), e che esprime “associazione di tipo mafioso”;

1.1.1. tanto che, nella norma, la associazione non è (sempre) a delinquere, stampo e tipo non sono sinonimi, giacchè il primo è modello cui si riconduca alcunchè, il secondo e mezzo della ricognizione e descrizione della realtà interessante (la norma incriminatrice), in questo caso mezzo (tipo) normativo extragiuridico assunto funzionalmente da quello giuridico, e come tale appositamente usato dalla norma propensa anche alla estensione analogica ( della ricognizione);

1.1.2 dunque è sostantivo infungibile semiologicamente e giuridicamente, inassimilabile a qualunque altro: per ciò può dirsi che l’oggetto della imputazione al capo indicato non è la associazione di tipo mafioso, o simile “comunque localmente denominat(o)”;

1.2 peraltro, fosse ravvisata, in quella imputazione, la associazione in questione, poiché le condotte (e gli inerenti) eventi) di organizzazione e di direzione inerirebbero una associazione costituita (anche, e differentemente da altre) dall’elemento della “forza intimidatrice… (onde la condotta di costituzione, della associazione, nella interazione ovviamente con le altre fattispecie, per quanto, già osservato, ha a subevento la acquisizione di esso, che contemporaneamente diviene presupposto delle condotte di organizzazione e di direzione);

1.2.1 poiché all’opposto, nella imputazione, quel subevento verrebbe generato mediante “programmazione e (l’)esecuzione di vari delitti, prevalentemente minacce e danneggiamenti intimidatori…”, dall’associazione che, perseguendo gli scopi, non potrebbe che essere già costituita organizzata diretta, manca, in essa, uno (sub)evento costitutivo, e la possibilità stessa di raffigurare il perseguimento di scopi tipici che non potrebbe, quell’evento, non condizionare e connotare: la (ipotetica) pluralità soggettiva associata non sarebbe certo associazione di tipo mafioso;

1.3 perseguimento, di scopi, oltre tutto, tipologicamente tenuto a “profitta(re) della condizione di assoggettamento e di omertà che ne era derivata…” e che al contrario, non essendo data la “forza intimidatrice…, e dato l’avval(imento)”di essa, non potrebbero essere date le (susseguenti)condizioni dell’assoggettamento e della omertà;

1.4 perseguimento, peraltro, avente ad oggetto”ingiusti vantaggi socioeconomici che sarebbero seguiti alla gestione del Comune di Barisardo”, per ciò vantaggi supponenti tale gestione, scopo dunque della attività “sociale”, la assunzione politico elettorale del potere comunale, tuttavia certamente estranea alla tipologia di fattispecie, al quadro sociologico da essa immaginato: che la “associazione di tipo mafioso”, comunque localmente denominata, è un organismo subsociale e subculturale, rispetto a quello sociale e culturale (nella sfera politicoistituzionale al vertice), immancabilmente altro da quello (a malgrado della possibilità dl contatto e perfino della “infiltrazione”);

1.4.1 e di fatti l’imputazione prosegue: “gestione che intendevano ottenere (dopo le procurate dimissioni del sindaco in carica), con la violenta estromissione dalle competizioni elettorali…di formazioni politiche contrapposte a quelle capeggiate dalla Piroddi, così impedendo o comunque ostacolando il libero esercizio del voto….;

1.4.2 espone dunque, essa, una accolta di persone tesa alla competizione elettorale ed alla presa del potere politico in forma “non democratica” (potrebbe sintetizzarsi), cioè non attuata (esclusivamente) con tecniche di sistema elettorale, verso la formazione di maggioranze, del tutto incorrispondente a quella della fattispecie;

1.5 davanti la quale, in altre parole, mirare con qualsiasi mezzo anche illecito ed anche violento alla acquisizione del potere politico istituzionale in forma (ovviamente) associata è giuridicamente irrilevante;

1.6 si intravede, nella logica della imputazione, che i delitti attuanti lo scopo della associazione attuerebbero contemporaneamente questa, che l’effetto accompagna la causa, come si intravede che i “delitti scopo”, o gli scopi, realizzerebbero a loro volta scopi ulteriori, che verrebbero dalla associazione solo mediatamente, i quali soltanto corrisponderebbero quelli tipici e incriminanti (se immediati);

1.7 dunque il (primo nella fattispecie) nucleo della associazione, quello “ primario” dato dalle condotte genetiche, costitutive, motorie (organizzazione e direzione) è affatto incorrispondente, nella imputazione, a quello tipico ( per le ragioni indicate: numero delle persone subeventi rapporti alle condotte di fase etc),

1.7.1 per ciò la sentenza avrebbe dovuto dichiararlo insussistente, rispetto a quello tipico (art. 606 co. 1 e), b) c.p.p.);

1.8 e ben prima di sostituirlo, con quello tipico, traendolo dalle sue premesse teoriche (infra esposte), allestite in motivazione per dissimulare lo scambio, come se avessero elaborato il fatto secondo la imputazione, elaborandolo in vece contro, o al posto di, essa (art. 606 co. 1 e) c.p.p.);

1.8.1 sostituzione trasgressiva, peraltro, di elementari divieti, essendo permessa soltanto in “grado” (il primo o l’udienza preliminare quando sia) e in modo (artt. 516 ss, o 521 co. 2 c.p.p.) ben differenti (art. 606 co. 1 c) c.p.p.);

1.9 peraltro, se mai la sentenza avesse ravvisato la sussistenza del fatto e la sua corrispondenza a quello tipico, da un lato avrebbe visto con illogicità manifesta (art. 606 co. 1 e) c.p.p.) da altro avrebbe falsamento applicato la legge penale, il cui tipo di fatto è nettamente altro da quello imputato;

2. nel Capo B/1 Pug S e altri sono imputati di avere “fatto parte …dell’associazione di cui al Capo A/1”!

2.1 cioè, di  una associazione inesistente per le ragioni sub 1, non partecipabile tipicamente ex art. 416 bis co.1 c.p.;

2.2 “fatto parte”, essi, secondo imputazione, senza avvalersi, partecipando o agendo in perseguimento degli scopi,  della “forza di intimidazione…e delle condizioni di assoggettamento e di omertà…; atipicamente dunque;

2.2.1 bensì “concorrendo… alla consumazione di vari reati ivi ( Capo A/1) richiamati, al fine di consentire …l’estromissione dalle competizioni elettorali…di formazioni politiche contrapposte…; e  con ciò “intimidendo gli oppositori…” (ove, evidentemente, l’elemento della “forza intimidatrice…” sarebbe in fieri semmai fosse  in germe, e comunque, nascendo da reati scopo, precederebbero non seguirebbero una associazione; 

2.2.2. avrebbero, essi, “partecipato”,  cioè,  commettendo i reati scopo,  laddove si partecipa ad associazione tipicamente anzitutto associandosi  ad essa, e poi, semmai commettendone reati scopo (per giunta inessenziali alla associazione de qua) dovendo questi  soggettivamente calarsi nel finalismo di quelli tipici perchè possano eventualmente associare l’autore;  

2.2.3 onde supporre, nella imputazione,  la partecipazione ad “associazione mafiosa”, invece che la insussistenza di essa, è manifestamente illogico (art. 606 co. 1 e) c.p.p.), oppure modifica  il fatto (art. 606 co. 1 c) c.p.p.: vd sub 1.8.1 ) oppure compie falsa applicazione della legge penale (art. 606 co. 1 b) c.p.p.);

3. d’altronde, nel Capo L della imputazione a (parte de) i predetti, i delitti di fabbricazione detenzione porto di “ordigno esplosivo” col quale sarebbe stato compiuto quello  di danneggiamento “ intimidatorio” (palesemente dunque l’elemento della “forza intimidatrice” nascerebbe dai reati scopo), non hanno  alcun rapporto con la associazione (o la sua fattispecie aggravante essa in art. 416 bis co. 4 e co. 5 c.p.);

3.1 ciò che riconferma i vizi appena denunciati della sentenza (art. 606 co. 1 …c.p.p.);  

4. d’altronde nel Capo L 1, della imputazione a (parte de) i predetti, il delitto di detenzione e porto di fucile “a scopo di danneggiamento intimidatorio” (compiuto) impone considerazioni ed eccezioni di vizi  identici ai precedenti;

5. d’altronde nel Capo M della imputazione a (parte de) i predetti,  i  delitti di fabbricazione detenzione porto di ..ordigno esplosivo … “ a scopo di danneggiamento “intimidatorio…” (compiuto) impongono considerazioni ed eccezioni di vizi della sentenza identici ai precedenti;

6. d’altronde nel Capo N della imputazione a (parte de) i predetti i delitti di fabbricazione detenzione porto di ordigno esplosivo “a scopo di danneggiamento intimidatorio” (compiuto) impongono considerazioni ed eccezioni di vizi  identici ai precedenti (con l’ulteriore considerazione che i “promotori costitutori organizzatori, direttori” della associazione, Pischedda e Piroddi, sarebbero  concorrenti ex art. 110 nei delitti indicati a  pari titolo,  talmente  da escludere ogni segno della loro posizione “sociale”, e, malgrado il concorso, ogni segno della associazione, mancando perfino il riferimento ai  suoi scopi;

7. d’altronde nel  Capo O della imputazione  a (parte de) i predetti i delitti di detenzione e di porto di armi da fuoco…”a scopo di danneggiamento intimidatorio” (compiuto) impongono considerazioni ed eccezioni di vizi identici ai precedenti,   

8. d’altronde nel Capo R2 della imputazione a (parte de) i predetti,  i delitti  di fabbricazione detenzione  porto di ordigno esplosivo…a scopo di danneggiamento intimidatorio impongono considerazioni ed eccezioni di vizi  identici ai precedenti;

9. d’altronde nel Capo RR della imputazione a (parte de) i predetti, l delitti di fabbricazione detenzione porto di…ordigno esplosivo…a scopo di danneggiamento intimidatorio impongono considerazioni  ed eccezioni di vizi identici ai precedenti;

10. d’altronde nel Capo X della imputazione, ad Arra Carlo, il delitto di detenzione di armi esplosivi  munizioni,  in “deposito” nel processo per “associazione,  è ascritto esclusivamente a lui, senza concorso con alcuno, con alcuno dei predetti imputati,  quindi, non  partecipi di “associazione armata!” (art. 416 bis co. 4 e co. 5 c.p.); 

11. d’altronde nel Capo X2 della imputazione, a Locci Gian Paolo, il delitto, simile al predetto, è ascritto  esclusivamente  a lui, senza concorso con alcuno, con alcuno dei predetti imputati, nemmeno con Arra, quindi, non partecipi di “associazione armata”; 

12.  d’altronde nel Capo Y della imputazione a (parte de) i predetti, i delitti di fabbricazione detenzione porto di …ordigno esplosivo…a scopo di danneggiamento intimidatorio…impongono considerazioni ed eccezioni su vizi e della sentenza identici ai precedenti sub 9 retro;

13. d’altronde nel Capo A della imputazione  a (parte de) i predetti,  i delitti di detenzione e porto in luoghi pubblici di arma da fuoco … a scopo di danneggiamento intimidatorio. impongono considerazioni ed eccezioni di vizi identici ai precedenti sub 9 et retro;

13.1 e se è vero che quei delitti, in questo Capo, sopraggiunto a dibattimento, sarebbero “aggravat(i) ai sensi dell’art. 7 L. 203/91 in quanto commess(i) avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. e comunque al fine di favorire l’associazione per delinquere di stampo mafioso promossa costituita diretta ed organizzata dal Pischedda e da Piroddi Maria Ausilia; associazione che valendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo reso palese mediante la programmazione e l’esecuzione di vari delitti…perseguiva, profittando delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne era derivata, lo scopo di…,

13.2 ( se ciò è vero) mentre è palesemente frutto di tentativo di fare in extremis un richiamo alla mafiosità del fatto, come mostra il paradosso che un delitto di danneggiamento mediante esplosione di undici colpi contro la parete esterna degli uffici di uno Studio….abbia bisogno, per compiersi, oltre che dell’arma e delle munizioni, anche dell’avvalimento cennato, di persone peraltro invisibili mentre agiscono e dunque irriconducibili a nient’altro che ad anonimi;

13.3 avvalendosi di tale forza (recita l’imputazione dell’ultim’ora) o, alternativamente, “al fine di favorire l’associazione per delinquere di stampo mafioso…”,

13.3.1 con ciò scindendo i predetti, che pure sarebbero partecipi della associazione, da questa, in quanto agenti per favorirla non in quanto partecipi (dunque attuanti condotta, dell’estraneo, di favoreggiamento della associazione: arg. ex art. 379, 418 c.p.);

14. d’altronde nel Capo B della imputazione a (parte de) i predetti, sopraggiunto anch’esso a dibattimento, i delitti di detenzione e porto di arma da fuoco e di tentativo di omicidio impongono considerazioni ed eccezioni su vizi identici ai precedenti sub 9 et retro;

15. d’altronde nel Capo C della imputazione a (parte de) i predetti, i delitti di detenzione e porto di arma da fuoco …a scopo di danneggiamento intimidatorio…impongono considerazioni ed eccezioni su vizi identici ai precedenti sub 9 retro;

15.1 mentre, se è vero che quel delitto, in questo Capo di Imputazione, sarebbe aggravato ai sensi dell’art. 7 L. 575/’65, varrebbero le osservazioni svolte sub 13 ss;

16. dunque tutti gli elementi della imputazione escludevano nucleo primario (promozione….) e nucleo secondario (partecipazione);

16.1 quando l’esclusione non fosse stata assoluta (sub 13 ss, 15 ss), esplicita, sarebbe stata implicità (locc. ora citt.), per incoerenza alla retta logica della inclusione;

16.2 la sentenza che la abbia rigettata, affermando la associazione, mentre avrebbe agito illogicamente (non cogliendo l’esclusione) e/o avrebbe agito “illegalmente” (erroneamente interpretando e applicando la legge penale in questione), ovvero avrebbe sostituito indebitamente il contenuto della imputazione con quello della sua premessa giuridica (infra D );

16.3 in tutti questi casi trasgredendo ex art. 606. co. 1 e), b), c) (artt. 516 ss) c.p.p.;

16.5 trasgredendo ancora ex art. 606 co. 1 e) c.p.p., allorché pone in conflitto la sua premessa giuridica sul fatto tipico di associazione (infra sub D) col fatto di associazione espresso in imputazione;

seconda parte

D

Ma che cosa, della premessa giuridica della sentenza, solennemente epigrafata ut sub B, ha permesso il travisamento fattuale e giuridico della imputazione, come risultante sub C, in materia di “associazione”:

1. Giova, invero, ricordare che il precetto dell’art. 416 bis c.p. descrive l’associazione di tipo mafioso con una definizione i cui contorni, benché in gran parte mutuati dalla nozione generalmente recepita dalla giurisprudenza precedente in tema di associazione per delinquere “semplice” (cfr., ex plurimis, 16 dicembre 1971, Di Maio; peraltro, una nozione di associazione “mafiosa” già risultava, in termini analoghi, dalla giurisprudenza in tema di misure di prevenzione), designano l’associazione mafiosa come figura di reato dotata di connotati di assoluta autonomia in quanto strettamente ricollegati alla specifica tipologìa del vincolo associativo, alle modalità
dell’azione dei componenti il sodalizio, ai fini “istituzionali” perseguiti dall’associazionismo mafioso ed ai suoi membri.

1.1 locuzione ‘associazione per delinquere “semplice”’, invero, dall’aggettivo irreperibile nella fattispecie legale relativa, è usata per dare comparativamente una misura criminologica, oppure, per definire il carattere della fattispecie rispetto ad altra, “circostanziata” o ad altra “complessa (secondo le attese della comunità linguistica dell’ambito)? E se così, in una di queste la sentenza tenderebbe a collocare quella di “associazione di tipo mafioso”, che, peraltro, non sempre sarebbe “ per delinquere” laddove la “semplice” lo è sempre?

1.2 quando un aggettivo “interpretativo” apra tanti interrogativi, e non li chiuda, il linguaggio è inammissibilmente ambiguo, persistendo, porta a inosservanze ed erronee applicazioni della legge penale penale, che già (pre)compie ( art. 606 co. 1 b) c.p.p. );

2. Sin dalle prime pronunce il Supremo Collegio ha sottolineato tale autonomia, rilevando che le associazioni di tipo mafioso e le altre associazioni comunque localmente denominate sono
figure radicalmente distinte rispetto all’ordinaria associazione per delinquere. È chiaro allora come l’elemento maggiormente designante la fattispecie prevista dall’art. 416 bis c.p. è stato subito individuato nella forza intimidatrice del vincolo associativo utilizzata dai componenti il sodalizio (Sez. I, 9 giugno 1983, De Maio; Sez. I, 30 gennaio 1985, Scarabaggio). Essa, infatti, rappresenta l'”in sé” dell’associazione di tipo mafioso, il dato che più discrimina quella prevista dall’art. 416 bis
dalle altre associazioni criminali.

2.1 Se la parola “sodalizio” sostituisce quella di associazione, il rischio di sviamento interpretativo, con travisamento della imputazione, è già realizzato: la “associazione” è associazione non concorso di persone (art. 110 cp) non accordo (art. 304 cp) non banda (art. 307 cp) non “gruppo” (art. 609 0cties cp) non riunione o assembramento (art. 18 ss tulps) né altro…, delle plurisoggettività attive giuridico penali ( tutte bene differenziate e differenzianti nel lessico relativo, che la interpretazione ha il dovere assoluto di rispettare, avendo ad oggetto parole giuridiche: se potesse sostituirle, non solo il soggetto si farebbe oggetto e viceversa, ma il sistema linguisticamente predeterminato e tassativo della legalità penale andrebbe in pezzi, con regresso all’autismo pregiuridico); tanto meno l’associazione è “sodalizio” (di rango e senso lessicali incerti, peraltro); se potesse designare comunemente la plurisoggettività della imputazione, non potrebbe connotarla come associazione ( art. 606 co. 1 b) c.p.p.);

3. Sul piano della ricostruzione del reato, la “forza intimidatrice del vincolo associativo” trascende la stessa tipicità della condotta associativa di cui non costituisce una modalità di manifestazione, venendo, invece, definita quale elemento strumentale, come sottolineato dal verbo “si avvalgono” (Sez. I, 6 aprile 1987, Aruta): un’espressione che allude al momento in cui l’associazione ha raggiunto quel minimo dì capacità intimidatoria in grado di determinare le condizioni di assoggettamento e di omertà.

3.1 Tuttavia, se la forza intimidatrice fosse oltre la tipicità, come potrebbe essere un elemento del fatto penalmente rilevante, necessariamente tipico? E come, per la stessa ragione, potrebbe essere elemento “strumentale”, ben si intende, del fatto tipico. Peraltro, posta “la forza…” oltre la tipicità, per ciò questa può avvolgere, in sentenza, l’imputazione pur priva di quella (art. 606 co. 1 b) cpp);

4. Tutto ciò sta a significare che la condotta del partecipare ad un’associazione resta designata dal semplice “far parte” di un sodalizio che ha – di per sé – le predette caratteristiche, senza che possa assumere rilievo (se si eccettui, ovviamente, il ruolo dei capi, dei promotori e degli organizzatori) il quantum da  ciascuno dei partecipanti utilizzato al fine di fare acquistare all’associazione la forza intimidatrice.

4.1 richiamato quanto sopra sul “sodalizio”, quale insieme di persone più esteso, semiologicamente e naturalisticamente, e diversamente strutturato, della associazione, imposto che sia alla imputazione, la questione è : “fare parte” di un sodalizio equivale giuridicamente, tecnicamente, a fare parte di una associazione (art. 606.1 b) cpp)?

Peraltro, che ruolo interpretativo, se non quello di travisatore della imputazione, ha il “quantum” del partecipante a “fare acquistare…”, quando la partecipazione postuli la previa costituzione della associazione, anche, in specie, mediante acquisizione originaria della “forza intimidatrice” (art. 606 co. 1 b) c.p.p.)?

5. Un dato che rappresenta, dunque, salvo che si sostanzi nella consumazione di ulteriori reati del tutto indifferente in relazione alle esigenze teleologiche considerate dall’art. 416 bis c.p.

5.1 A parte la inconcludenza della frase, avrebbe che fare con le “esigenze teleologiche dell’art. 416bis” (si noti dell’articolo non del fatto o del reato), un elemento, quello di “fare parte”, della fattispecie, oggettivo (art. 606 co. 1 b) c.p.p.)?

6. Pertanto, a qualificare o ad escludere la configurabilità di una associazione di tipo mafioso è essenziale, anzitutto, che questa si avvalga della pressione derivante dal vincolo associativo in se stesso (Sez. I, 21 ottobre 1986, Musacco), nel senso che è l’associazione, e solo l’associazione,  indipendente dal compimento di specifici atti di intimidazione, ad esprimere il metodo mafioso e la
sua capacità di sopraffazione (Sez. I, 21 ottobre 1986,
Musacco).

6.1 Con ciò, è disgregato l’elemento oggettivo suddetto, è ridotto, anche per contrazione linguistica della frase incidentale, al vincolo associativo, ed alla espressione da esso del “metodo mafioso” (di conio, anche questo, extralegale, forse gergale); e a malgrado delle postulazioni sub 2, ignare o ipocrite, della “autonomia” di questa associazione da ogni altra; la fattispecie è già pienamente riformata per le “esigenze teleologiche “ della repressione: così è attagliata alla imputazione (art. 606 co. 1 b) c.p.p.); così d’altronde contraddice precedente assunto, suscitando l’ipotesi, per ora prematura, che la premessa giuridica in questione, insieme incoerente di massime giurisprudenziali, sia stata tesa a dare apparenza di motivazione (art. 606 co. 1 e) c.p.p.);

7. Dunque, nella struttura del delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso, la forza di intimidazione del vincolo associativo, da cui deriva la situazione di assoggettamento e di omertà, rappresenta l’elemento strumentale tipico del quale gli associati si
servono in vista degli scopi propri dell’associazione; con la conseguenza che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 416 bis c.p., è indispensabile che quell’elemento effettivamente sussista e che gli associati siano consapevoli della sua esistenza. Si richiede, cioè, che l’associazione abbia conseguito nell’ambiente circostante una effettiva capacità di intimidazione e che gli aderenti se ne siano avvalsi in modo effettivo al fine
di realizzare il loro programma criminoso (Sez. VI, 6 dicembre 1994, Imerti). Ma, proprio perché la carica intimidatoria rappresenta l’in sé del fenomeno mafioso, è necessario – come già detto – che essa sia dotata di una ontologica autonomia, nel senso che, costituendo tale carica patrimonio dell’associazione, l’assoggettamento e l’omertà derivi da questa e non da altri fattori (Sez. VI, 31 gennaio 1996, Alleruzzo).

7.1 per quanto corretto, l’enunciato non rinuncia a innovare, oltre che nel lessico legale, anche in quello proprio: ora gli associati sarebbero “aderenti” (salvo errore indistinguibili dagli iscritti ad una bocciofila): la imputazione è più agevolmente travisabile in termini (art. 606 co. 1 b) c.p.p.);

8. Nei casi in cui la forza di intimidazione sia soltanto la risultante delle qualità soggettive di alcuni componenti il sodalizio, si potrà ipotizzare, in presenza dei requisiti richiesti dalla legge, una associazione per delinquere comune, ma non certo un’associazione per delinquere di tipo mafioso. Un’associazione può, infatti, considerarsi tale solo se abbia sviluppato intorno a sé una carica intimidatrice autonoma, ricollegabile, cioè, esclusivamente al nucleo associativo, creando nei confronti del gruppo un alone permanente di timore diffuso.

8.1 enunciato corretto, tuttavia inconciliabile ad altri precedenti (art. 606 co. 1 e) (illogicità giuridica della motivazione) c.p.p.); cresce l’ipotesi sub 6.1 della apparenza della motivazione (art. 606 co. 1 e) c.p.p.);

9. Sino a quando una consorteria, che pur persegua gli scopi previsti dall’art. 416 bis, non abbia raggiunto quella soglia minima che le consente di utilizzare la forza intimidatrice nel suo manifestarsi in sé, non sarà, dunque, ipotizzabile un’associazione di tipo mafioso.

9.1 ut sub 7.1: anche la “consorteria” al posto della associazione conferisce al travisamento in termini della imputazione (art.606 co. 1 b) c.p.p.); 

10. In cosa consista, poi, l’avvalersi della forza intimidatrice è concetto che può essere espresso solo adottando una formula di genere, considerato il ruolo cruciale del “metodo mafioso” e la sua possibilità di esplicarsi nei modi più disparati, sia limitandosi a sfruttare  la  carica  intimidatoria  già conseguita dal sodalizio, sia ponendo in essere nuovi atti di violenza o di
minaccia. Nel primo caso è evidente che il sodalizio è già pervenuto al superamento della soglia minima che consente di utilizzare la forza intimidatrice soltanto sulla base
del vincolo e del suo manifestarsi in quanto tale, all’esterno; nel secondo caso, è stato perspicuamente posto in luce dall’interpretazione giurisprudenziale come gli
atti di violenza o di minaccia (forse, parrebbe più rigoroso parlare di “atti di intimidazione”, non soltanto perché non necessariamente la violenza e la minaccia esauriscono la categoria delle condotte di intimidazione ma anche, e soprattutto perché in tal modo diviene possibile
fissare un discrimine concettualmente non irrilevante tra “forza di intimidazione” ed “attività di intimidazione”) non realizzano l’effetto di per sé soli, ma in quanto costituiscano espressione rafforzativa della precedente capacità intimidatrice già conseguita dal sodalizio (Sez. VI, 3 giugno 1993, De Tommasi).

10.1 enunciato in parte corretto, tuttavia disturbato dalla riduzione della associazione a “metodo mafioso”, e da  incompletezza:

perché la intimidazione volta alla integrazione dell’elemento della “forza intimidatrice” della associazione potrebbe iscriversi nel tentativo di promozione o di costituzione della associazione, essendo, questi, eventi propri di quella condotta, di causazione ed integrazione della “forza intimidatrice”, o eventi insieme a questa della fase genetica della associazione, condotta, peraltro, attuabile sia in forma monosoggettiva che in forma plurisoggettiva; sfuggito ciò totalmente alla sentenza, essa può tipizzare ex art. 416 bis una imputazione che fa generare “la forza…” dai delitti scopo! (art. 606 co.1 e) c.p.p.);

11. Ulteriori elementi indispensabili per configurazione del delitto di associazione di stampo mafioso sono la condizione di assoggettamento e quella di omertà, entrambe come conseguenza della forza di intimidazione del vincolo associativo da cui derivano causalmente; se, infatti, l’assoggettamento e l’omertà dipendano da fattori diversi dalla forza intimidatrice del vincolo (ad esempio, da qualità soggettive di taluni componenti il sodalizio), può ritenersi, in presenza dei propri elementi costitutivi, la sussistenza di un’associazione per delinquere comune (Sez., 21 ottobre 1986, Musacco).

Anche se tale definizione delinea, forse, una non troppo corretta individuazione dei rapporti tra l’avvalersi del vincolo associativo e della situazione di assoggettamento e di omertà, con l’art. 416 bis c.p., che si esaurisce nella previsione del far parte di una simile associazione, la giurisprudenza è costante nel ritenere che la norma in parola configura un delitto associativo a condotta multipla o mista, nel senso che, mentre perché si abbia associazione semplice è sufficiente la creazione di un’organizzazione stabile, sia pure rudimentale, diretta al compimento di una serie indeterminata di delitti, perché ci si trovi di fronte ad un’associazione mafiosa è altresì necessario che questa abbia conseguito nell’ambiente circostante una reale capacità di intimidazione e che gli aderenti si siano avvalsi in modo effettivo di tale forza al fine di realizzare il loro programma criminoso (Sez. VI, 6 dicembre 1994, Imerti) omertà che ne deriva (Sez. VI, 31 gennaio 1996, Alleruzzo).

La giurisprudenza ha, perciò, particolarmente insistito sul “metodo mafioso” che contrassegna il reato di cui all’art. 416 bis, metodo seguito dai componenti dell’associazione per la realizzazione del programma associativo. È, forse, questa una delle più importanti messe a fuoco della condotta prevista dall’art. 416 bis Pur non essendo componente della condotta, ma dato di qualificazione del sodalizio, il metodo si connota, dal lato attivo, per l’utilizzazione da parte degli associati della carica intimidatrice nascente dal vincolo associativo e, dal lato passivo, per la situazione di assoggettamento e di omertà che da tale forza intimidatrice, quale effetto, si sprigiona per il singolo sia all’esterno dell’associazione sia al suo interno (Sez. I. 10 febbraio 1992, D’Alessandro; Sez. VI, 10 marzo 1995, Monaco). Si assiste, cioè, ad una separazione concettuale dell’attività dal metodo. La prima si incentra sul contributo prestato all’associazione; il secondo nell’utilizzazione del sodalizio in modo da creare assoggettamento e omertà.

Non basta, dunque, l’uso della violenza o della minaccia, che può essere previsto come elemento costitutivo dei delitti programmati – altrimenti tutte le associazioni criminose aventi come programma tali delitti diverrebbero automaticamente di tipo mafioso – ma è necessario che la forza intimidatrice sia, non solo componente strutturale del programma criminoso, ma anche espressione dello stesso vincolo associativo e sia diretta a creare nel territorio condizioni di assoggettamento tali da rendere difficile l’intervento preventivo o repressivo dei poteri dello Stato e da creare una diffusa omertà (Sez. I, 1^ luglio 1987, Ingemi).

11.1 l’enunciato nel complesso sarebbe corretto, se non contraddicesse i, o non si discostasse dai, precedenti, sopra visti (art. 606 co. 1 e) c.p.p.), a parte, da un lato, che associazione per delinquere e associazione “mafiosa” non si differenziano per le condotte, singola nella prima plurima nella seconda, giacchè, se il moltiplicatore fosse l’elemento della “forza”, questo è presupposto della condotta, di avvalersi etc., non condotta esso stesso, semmai, essendo evento della condotta antecedente, la costituzione della associazione;

e, a parte, dall’altro, che non è necessario ed anzi è sviante trasferire nel metodo, assieme alla fattispecie peraltro, quanto é insito nella condotta, che impieghi ed abbia a presupposto la “forza…”; con l’effetto sub 10.1 infine. (art 606 co. 1 b) c.p.p.); l’enunciato peraltro contraddice taluni precedenti, visti, consolidando l’ipotesi sub 6.1 (art. 606 co. 1 e) c.p.p.); 

12. La capacità qualificatoria del metodo mafioso ha trovato ampie conferme giurisprudenziali, allorché si è osservato che la natura mafiosa di un’associazione non è determinata dagli scopi che essa si prefigge, bensì dal metodo impiegato, con il ricorso sistematico all’intimidazione e all’imposizione di un atteggiamento omertoso, tanto che è possibile rinvenire i connotati della mafiosità anche in associazioni criminali che si fronteggino in una faida familiare e che in tale contrapposizione concentrino quasi esclusivamente la propria attività (Sez. V, 21 ottobre
1996, Bruzzìse). Od ancora, quando si è precisato che un’associazione può definirsi di tipo mafioso,
distinguendosi dalla normale e tradizionale associazione per delinquere, quando sia connotata da quei particolari elementi indicati nell’art. 416 bis c.p., dei quali il principale ed imprescindibile è il metodo mafioso seguito per la realizzazione del programma criminoso; aggiungendosi che per la specifica connotazione “mafiosa” di un sodalizio vanno coordinati i vari elementi indiziar!, in una chiave di lettura che tenga conto delle nozioni socioantropologiche e del particolare ambiente culturale, geografico ed etnico in cui i fatti sono maturati (Sez. I, 10 dicembre 1997, Rasovic).

12.1 Se gli scopi non connotassero la mafiosità della associazione, essi sarebbero estranei alla fattispecie, mentre non solo le sono intranei,, ma sono assolutamente caratterizzanti la associazione (che abbia fini di impresa economica o di affare economico, non di reato, pertinenti invece alla associazione per delinquere, per cui la sentenza torna alle precedenti postulazioni, assenza della forza intimidatrice e di essa come presupposto delle condotte, assenza di scopi tipici, riduzione della fattispecie a metodo, al netto  dunque di forza intimidatrice e di condizioni  di assoggettamento e di omertà derivanti, addirittura,  esplicitamente, perviene, la sentenza, alla riduzione ad essa della faida familiare per il solo fatto dell’uso contingente della violenza; non potrebbe sussumere più agevolmente,  l’imputazione (art. 606 co. 1 b) c.p.p.);

13. Frequente è pure l’enunciazione del principio secondo cui la forza di intimidazione non deve necessariamente essere utilizzata dai singoli associati (né deve necessariamente estrinsecarsi, di volta in volta, in atti di violenza fisica o morale), per il raggiungimento dei fini previsti
dalla norma incriminatrice, perché ciò che caratterizza, sul piano descrittivo e su quello ontologico,
l’associazione di tipo mafioso, secondo il modello legale, è la condizione di assoggettamento (che implica uno stato di soggezione, derivante dalla convinzione di essere esposti ad un concreto e ineludibile pericolo di fronte alla forza dell’associazione) e di omertà (che consiste in una forma dì solidarietà, che ostacola o rende più difficoltosa l’opera di prevenzione o di repressione, che dal vincolo associativo deriva per il singolo all’esterno, ma anche all’interno dell’associazione; cfr. Sez. I, 6 aprile 1987, Aruta; Sez. I, 13 giugno 1987, Altivalle; Sez. I, 25 febbraio 1991, Grassonelli): un principio che pare assumere una significativa valenza ermeneutica soltanto se inteso nel senso che lo stesso “far parte” dell’associazione e l’agire esterno del consociato indicano nell’assoggettamento e nell’omertà l’effetto della forza intimidatrice (Sez. VI, 31 gennaio 1996, Alleruzzo).

13.1 Attraverso il richiamo degli eventi dell’assoggettamento e della omertà l’enunciato recupera coerenza alla fattispecie, incoerenza peraltro a suoi precedenti (art. 606 co. 1 e) c.p.p.), ma allorché rileva che il solo “far parte” della associazione implicherebbe assoggettamento ed omertà, da un lato fa coincidere eventi, quelli adesso indicati, con i presupposti delle condotte che li genererebbero, la partecipazione, da un altro, elimina le condotte generative  di essi, imposte alla fattispecie dal verbo “avvalersi” che certo né naturalisticamente né semiologicmente è identificabile nell’elemento del “far parte” che, ripetesi, è presupposto delle condotte or dette (art. 606.1 b) e) cpp); la sentenza non potrebbe sussumere più agevolmente l’imputazione (art. 606 co. 1 b) c.p.p.); 

14. Si è però anche detto che non è sufficiente, per qualificare un’associazione per delinquere ai sensi dell’art. 416 bis c.p. che l’associazione stessa abbia programmato di avvalersi della forza di intimidazione e della conseguente condizione di assoggettamento e di omertà, ma è necessario che se ne sia già avvalsa concretamente (Sez. I, 8 luglio 1995, Costioli). Una proposizione che va attentamente meditata perché se, per un verso, parrebbe spostare in avanti la soglia della condotta
punibile ex art. 416 bis c.p., per un altro verso, dovendo la carica intimidatoria essere commisurata alla natura del sodalizio non fa che esprimere un’esigenza (che appartiene, più che alla identificazione sostanziale, al momento probatorio) connaturata alla stessa funzione della norma
incriminatrice; in altri termini, se il sodalizio è noto per la sua carica di terrore, sembra chiaro che, essendosi già instaurato il clima di assoggettamento e di omertà, assumerà maggior rilievo il profilo finalistico, per essere l’associazione “in sé” mafiosa. Se, invece, l’associazione non abbia raggiunto una tale “notorietà”, occorrerà vagliare, anzi tutto, se, in concreto, la forza intimidatrice sia stata o no utilizzata. È certo, inoltre, che la statuizione debba essere letta nel senso che l’elemento caratterizzante l’associazione mafiosa si incentra sul grado di diffusività della sua forza intimidatrice, che non può essere dedotta da fatti episodici, ma va ricavata dalle concrete situazioni di assoggettamento e di omertà. Una soluzione questa che sembra raggiungere lo stesso approdo cui la giurisprudenza era pervenuta in precedenza, affermando che le dette condizioni devono riferirsi non ai componenti interni, essendo siffatti caratteri presenti in ogni consorteria, ma ai soggetti nei cui confronti si dirige l’azione delittuosa, essendo i terzi a trovarsi, per effetto della diffusa convinzione della loro esposizione a un concreto e ineludibile pericolo, dì fronte alla forza dei
”prevaricanti”, in uno stato di soggezione (Sez. I, 24 febbraio 1992, Barbieri).

14.1 Torna la relazione della associazione “mafiosa” alla associazione per  delinquere, laddove quella mafiosa non è o non è sempre una associazione per delinquere che ha immancabilemente fine di delitto; e, peraltro, la insufficienza, della programmazione, nell’avvalimento della forza intimidatrice, alla integrazione della fattispecie, dovendo questa in concreto avere a presupposto la forza intimidatrice e l’avvalimento a sua condotta, ben precisata peraltro dalla sentenza Sez, Un. sopra cit. D’altro canto, non è affatto ritardamento della integrazione della fattispecie “spostare in avanti” l’evento complesso di essa, bensì rifiuto fermo della antecipazione della integrazione della fattispecie, tanto che la programmazione suddetta costiturebbe semmai tentativo di causazione degli eventi di promozione. o di costituzione o di organizzazione della fattispecie; la fluttuazione arbitraria nella sequenza di fattispecie dei suoi elementi ne ha permesso il ravvisamento nella imputazione (art. 606 co. 1 b) c.p.p.);  

15. Si spiegano così talune statuizioni giurisprudenziali in ordine alla nozione di forza di intimidazione. Si è, infatti, precisato che, ai fini della sussistenza del reato di associazione di tipo mafioso la intimidazione interna al sodalizio, pur se rilevante sotto il profilo dell’estrinsecazione del metodo mafioso, non può prescindere dall’intimidazione esterna, poiché elemento caratteristico dell’associazione in questione è il riverbero,  la  proiezione  esterna,  il  radicamento  nel territorio in cui essa vive; assoggettamento ed omertà devono, pertanto, riferirsi non ai componenti interni,
essendo siffatti caratteri presenti in ogni consorteria, ma ai soggetti nei cui confronti si dirige l’azione delittuosa, essendo i terzi a trovarsi, per effetto della diffusa convinzione della loro esposizione a pericolo, in stato di soggezione di fronte alla forza dei prevaricanti.

Quanto alla diffusività di tale forza intimidatrice, si è detto che essa non può essere virtuale, e cioè limitata al programma dell’associazione, ma deve essere effettuale, siccome manifestazione della condotta, essendo la diffusività un carattere essenziale della forza intimidatrice, con la conseguente necessità che di essa l’associazione si avvalga in concreto, cioè in modo effettivo (Sez. V, 19 dicembre 1997, Magnelli).

Pur se pare, forse, contestabile, il solo richiamo al profilo esterno della forza di intimidazione e
l’assimilazione sotto il profilo interno dell’associazione per delinquere all’associazione per delinquere di tipo mafioso, risulta chiaro come il concetto di diffusività della carica intimidatoria, richiamato spesso in giurisprudenza, rappresenta uno dei profili più designanti, anche al fine di vagliare le connotazioni personali minime
del sodalizio.

15.1 L’enunciato è corretto, esso, nondimeno, è incongruo ad altri, precedenti,  è confermata l’ipotesi sub 6.1 della motivazione apparente ( art. 606 co. 1 e) c.p.p.);  

16. Ma altrettanto significante è la nozione di omertà quale espressa dal “diritto vivente”; nel senso che si richiede che il rifiuto di collaborare con gli organi dello Stato sia sufficientemente diffuso, anche se non generale; che tale atteggiamento sia dovuto non soltanto alla paura di danni alla propria persona, ma anche all’attuazione di minacce che comunque possono realizzare danni rilevanti; che sussista la diffusa convinzione che la collaborazione con l’autorità giudiziaria – denunciando il singolo che compie l’attività intimidatoria – non impedirà che si abbiano ritorsioni dannose per la ramificazione dell’associazione, la sua efficienza, la sussistenza di altri soggetti non identificabili e forniti di un potere sufficiente per danneggiare chi ha osato contrapporsi (Sez. VI, 31 gennaio 1996, Alleruzzo). Quasi compendiando i riferiti principi, gli elementi qualificanti il sodalizio criminoso di cui all’art. 416 bis c.p. sono stati correttamente ritenuti essenzialmente inerenti al modus operandi dell’associazione ed alla specificità del bene giuridico leso. Il primo consiste nell’avvalersi della forza intimidatrice che promana dalla stessa esistenza dell’organizzazione, alla quale corrisponde un diffuso assoggettamento nell’ambiente sociale e, dunque, una situazione di generale omertà.

16.1 Se l’evento di condizionamento di omertà non fosse descritto in relazione alle richieste di informazione, addirittura di collaborazione con gli organi dello stato (non è scritto in nessuna parte della fattispecie,  e un elemento culturale di questa, se si desse solo davanti quelle richieste non sarebbe tale,  supporlo tuttavia espunge dalla fattispecie l’elemento, e ne agevola l’uso, come in specie rispetto alla  imputazione che non lo descrive: art. 606 co. 1 b) c.p.p.), esso sarebbe adeguatamente esposto;

17. La seconda si incentra nel rilievo che, attraverso lo strumento intimidatorio, l’associazione si assicura la possibilità (fra l’altro) di commettere più delitti. Dal profilo concernente il “vincolo associativo” e la sua forza intimidatrice sembrano estranei gli aspetti organizzativi e pluripersonali del sodalizio che devono rispondere soltanto ai requisiti di cui all’art. 416 bis c.p…

17.1 La associazione “mafiosa” non deve assicurarsi affatto la possibilità di commettere delitti perchè essa può anche non finalizzare delitti, per quanto detto sopra; dirlo favorisce  la torsione dei delitti della imputazione verso la associazione   (art. 606 co.1 b) c.p.p.)

18. La giurisprudenza è, però, anche orientata nel senso che la prova del carattere mafioso di una consorteria può essere desunta dall’esistenza di un’efficiente organizzazione e di un rigoroso legame associativo, dei quali sono chiari sintomi la convocazione degli adepti per un’adunanza da tenersi in una località nascosta o poco accessibile, il numero delle persone che vi partecipano, la dislocazione di alcuni individui con compiti di custodia (Sez., 6 marzo 1984, Zappia).

Ancora, si è detto che la prova degli elementi caratterizzanti la ipotesi criminosa di cui all’art. 416 bis c.p. può ben essere desunta anche con metodo logico induttivo in base al rilievo che il clan presenti tutti gli indici rivelatori del fenomeno mafioso: segretezza del vincolo; rapporti di intensa frequentazione; rispetto assoluto del vincolo gerarchico; diffuso clima di omertà, come conseguenza e indice rivelatore dell’assoggettamento alla consorteria (Sez. VI, 31 gennaio 1996, Alleruzzo). Non mancandosi più volte di rimarcare che in tema di reato associativo gli indizi sulla sussistenza del reato possono essere legittimamente tratti dalla commissione dei reati fine, interpretati alla luce dei moventi che li hanno ispirati, quando questi valgano ad inquadrarli nella finalità dell’associazione (Sez. VI, 22 febbraio 1996, Marciano); che, ai fini dell’affermazione di responsabilità di taluno in ordine al reato di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, non occorre la prova che egli abbia personalmente posto in essere attività di tipo mafioso, essendo, al contrario, sufficiente la sola sua aggregazione a un’organizzazione le cui obiettive caratteristiche siano tali da farla rientrare nelle previsioni dell’art. 416 bis
c.p. (Sez. I, 28 settembre 1998, Bruno).

18.1 osservazione siffatta, ha già dissolto tutti gli elementi della fattispecie, e della realtà designata, ha ridotto essa a pura mafiosità, a stile mafioso di qualunque comportamento (anche parlare siciliano cabarettistico? ),  gli associati a “ommini” od “ommini di panza” (denominazioni di Sciascia), che scamperebbero alla persecuzione giudiziaria per lo stile di vita soltanto se “omminicchi”, o “quaquaraqua”…; la sussunzione della imputazione non potrebbe essere più agevole (art. 606 co.1 b) c.p.p.);

19. L’aspetto predominante della forza intimidatrice del vincolo associativo nell’ambito del fatto reato descritto dall’art. 416 bis c.p. ha finito per relegare ad un ruolo, in un certo senso secondario, il profilo concernente le finalità il cui perseguimento è richiesto dalla legge per qualificare l’associazione come di tipo mafioso. Davvero emblematica appare allora proprio sul piano metodologico la statuizione stando alla quale la tipicità del modello associativo delineato dall’art. 416 bis c.p. nelle modalità attraverso cui l’associazione si manifesta concretamente e non negli scopi che si intendono perseguire, atteso che questi, nella formulazione della norma ora ricordata, hanno un carattere indicativo ed abbracciano solo genericamente i “delitti”, comprendendo una varietà indeterminata di possibili tipologie di condotte, che possono essere costituite anche da attività lecite, che hanno come unico comune denominatore l’attuazione od il conseguimento del fine attraverso l’intimidazione ed il conseguente insorgere nei terzi di quella situazione dì soggezione che può derivare anche dalla conoscenza della pericolosità di tale sodalizio (Sez. I, 10 febbraio 1992, D’Alessandro).

19.1 Qui, dapprima, sia pure defilati,  compaiono  gli scopi quali elemento della associazione, poi scompaiono, per liberare, spogliate dei vincoli teleologici, le condotte, che, addirittura,  potrebbero essere lecite: e tuttavia essere qualificate dai fini. A parte la incongruenza della riapparizione dopo la sparizione: se le condotte potessero essere lecite, potrebbero non avvalersi della “forza..” del “vincolo..” e non generare assoggettamento od omertà, essere condotte  libere, nondimento di tutt’altra non di questa fattispecie, che dunque, peraltro contrariamente a precedenti enunciati,  è  disgregata dalla sentenza (è ribadita l’ipotesi della motivazione apparente sub 6.1: art. 606 co. 1 e) c.p.p.); laddove finanche per assioma esse, già perché corrispondenti ad un tipo incriminante, non potrebbero che essere illecite, leciti semmai, lo si diceva sopra, potendo essere gli scopi (in sé) della associazione, crescenti dunque nel ruolo di demarcazione dall’ altra fattispecie della associazione per delinquere; se gli scopi evaporano e le condotte levitano,  la imputazione è pienamente assoggettata (art. 606 co. 1 b) c.p.p.); 

20. Due ulteriori precisazioni sembrano, peraltro, estremamente significative sulla tematica dei fini perseguiti: la prima è che nell’associazione di tipo mafioso tali fini devono essere intesi in senso alternativo e non cumulativo, anche perché, con la previsione fra gli scopi del sodalizio mafioso del controllo di attività economiche, il legislatore ha avuto di mira l’esigenza di ampliare l’ambito applicativo della fattispecie, estendendolo alla realizzazione di attività di per  sé formalmente lecite; con la conseguenza che, prevedendo l’art. 416 bis c.p. finalità associative non direttamente riferibili all’economia pubblica, l’ordine pubblico economico si atteggia soltanto come oggetto giuridico eventuale del delitto in esame, il quale, come risulta dalla rubrica del titolo V del libro II del codice, in cui è inserito, è essenzialmente diretto contro l’ordine pubblico generale (Sez. VI, 3 giugno 1993,
De Tommasi): linea interpretativa ribadita dall’affermazione che la consorteria è di tipo mafioso quando il vincolo associativo ha una particolare intensità e stabilità, di guisa che essa, avvalendosi della forza di intimidazione del medesimo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, esista e operi permanentemente fuori della legge e abbia a presidio un’organizzazione stabilmente rivolta al conseguimento dei suoi scopi. La seconda è che, ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., non è necessario che siano raggiunti effettivamente e concretamente gli scopi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice ne’, perché si realizzi la situazione di partecipazione dei singoli associati, è indispensabile che ciascuno utilizzi la forza di intimidazione; la condotta di partecipazione può, infatti, assumere forme e contenuti diversi e variabili, consistendo nel contributo apprezzabile e concreto sul piano causale all’esistenza ed al rafforzamento dell’associazione e, quindi, alla realizzazione dell’offesa degli interessi tutelati dalla norma incriminatrice, qualunque sia il ruolo o il compito che il partecipe svolga nell’associazione (Sez. I, 15 aprile 1994, Matrone). Si è così ritenuta integrata la condotta di partecipazione ad un’associazione per delinquere di tipo mafioso nella fornitura di mezzi materiali a membri dell’associazione e nella trasmissione di messaggi tra membri influenti della medesima, in quanto tali attività ineriscono al funzionamento dell’organismo criminale, sia sotto il profilo della disponibilità di risorse materiali utilizzabili per l’operare di questo, sia sotto quello della predisposizione di canali informativi tra i suoi membri, che è incombenza di primaria importanza per il funzionamento dell’associazione per delinquere (Sez. I, 25 giugno 1996, Trupiano).

20.1 Rientrano i fini, adesso, di gran carriera, apertamente demarcatori, alternativamente,  della tipicità degli eventi e delle condotte, incoerendo a ben altri enunciati, in apparenza di motivazione  (art. 606 co. 1 e) b) c.p.p.);

21. Si è aggiunto che fa parte di un’associazione mafiosa chi presti un consapevole contributo alla vita del sodalizio di cui conosca le caratteristiche, sapendo di avvalersi della forza intimidatrice del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano per realizzare i fini previsti dall’ultima parte del terzo comma dell’art. 416 bis c.p. (Sez. VI, 22 gennaio 1997, Dominante). Non mancandosi di precisare che, ai fini della configurabilità del reato di partecipazione ad un’associazione per delinquere di tipo mafioso, non è necessario che il vincolo tra il singolo e l’organizzazione si protragga per una certa durata, ben potendo, al contrario ravvisarsi il reato anche in una partecipazione di breve periodo (Sez. VI, 17 novembre 1998, Cortes).

21.1 ma un enunciato battente così chiaramente sulla preesistenza della associazione (con tutti i suoi elementi di specie, “forza etc…) alla partecipazione, per quanto incoerente ad altri, come ha potuto sussumere la imputazione, che costituirebbe la associazione con e nei delitti scopo (art. 606 co. 1 e) b) c.p.p.)?;

22. Sul piano del discrimine tra la fattispecie di cui all’art. 416 e la fattispecie di cui all’art. 416 bis, si è osservato che, se per la configurabilità del primo reato la condotta penalmente rilevante si incentra nella costituzione di un sodalizio avente per scopo la consumazione di più delitti (quindi, il fatto associativo è previsto dal legislatore nel suo prodursi come entità che è criminosa per la natura criminosa del fine che ispira e muove gli autori del fatto), perché sussista, invece, il reato di cui all’art. 416 bis c.p. è penalmente rilevante non il fatto e la condotta produttiva del sodalizio – momento indifferente, in astratto, per la valutazione del giudice penale – ma il metodo, i mezzi utilizzati dal sodalizio e dai suoi associati, le finalità, una sola delle quali (commettere delitti) è comune all’associazione per delinquere.

I fatti oggetto delle norme ora ricordate sono, quindi, sostanzialmente diversi, ontologicamente distinti, funzionalmente autonomi, pur sussistendo la possibilità di conversione di un’associazione per delinquere di tipo comune in un’associazione per delinquere di tipo mafioso (Sez. I, 10 aprile 1987, Saviano).

22.1 Distinzione sostanzialmente corretta, quando perdesse l’enunciato per “cui è penalmente rilevante.. la condotta che costituisce il sodalizio”, nella associazione per delinquere comune, mentre in quella “mafiosa” sarebbero rilevanti il metodo, i mezzi…; quando lo perdesse,  perché esso pungola l’ipotesi che delle associazione predette si sia dileguata la nozione, perché,  ritenere che sia irrilevante la condotta di costituzione, ignora che essa è (inderogabilmente) una,  delle condotte, “primarie”, della associazione (promozione organizzazione costituzione), una delle condotte tipiche,  insieme a quella di partecipazione, delle  condotte che integrano il fatto di associazione sia nella associazione per delinquere che in quella “mafiosa”;  con la differenza che i presupposti di questa differiscono dai presupposti di  quella, e che i mezzi sono rilevanti in questa e non in quella solo perché, alle condotte “primarie” e “secondarie” della associazione, si aggiunge, in quella mafiosa, l’avvalersi… (art. 606 co. 1 b) c.p.p.);

23. Caratteri strutturali comuni fra i reati di cui agli artt. 416 e 416 bis sono, dunque, l’accordo a carattere generale e continuativo volto all’attuazione di un programma di delinquenza destinato a permanere anche dopo l’eventuale perpetrazione di ciascun delitto programmato, il numero minimo di tre associati nonché la predisposizione comune di attività e mezzi per la realizzazione del generico programma delinquenziale. Ciò che differenzia l’associazione di tipo mafioso dalla comune associazione per delinquere, conferendo alla prima carattere di specialità, è la previsione sia di particolari obiettivi criminosi costituiti, non soltanto dal compimento di fatti antigiuridici, sebbene anche dalla gestione e dal controllo di settori di attività economiche, sia dalla particolare efficacia intimidatrice del vincolo associativo sprigionantesi dal sodalizio, nel senso che esso assume il connotato di mafioso allorché gli associati si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare le finalità indicate nel co. 3  dell’art. 416 bis c.p. (Sez. I, 30 settembre 1986, Amerato).

23.1 l’ipotesi della apparenza della motivazione per le ragioni sub 6.1 è oramai certa (art. 606 co. 1 e) c.p.p.), quando poi si noti che le associazioni avrebbero per nucleo un accordo e per contorno un programma, la ipotesi del trascendimento della  realtà giuridica  della associazione esàgita, giacchè, la sentenza,  neppure distingue tra reati di accordo e reati di associazione (vd distinti sub : art. 606 co. 1 b) c.p.p.); vd infra. 

24. È appena il caso di rammentare che l’elemento distintivo tra i delitti associativi di cui agli artt. 416 e 416 bis c.p. e la semplice compartecipazione criminosa di cui all’art. 110 dello stesso codice è costituito dalla natura dell’accordo criminoso. Nel concorso di persone nel reato l’accordo si realizza in via occasionale e accidentale per il compimento di uno o più reati determinati, con la realizzazione dei quali si esaurisce, sicché, cessa ogni pericolo per l’ordine pubblico; nei delitti associativi, invece, l’accordo criminoso è diretto all’attuazione di un più vasto programma che precede e contiene gli accordi concernenti la realizzazione dei singoli crimini e che permane dopo la realizzazione di ciascuno di essi (Sez. I, 1A luglio 1987, Ingemi). Peraltro, pure se l’accordo può costituire elemento comune sia al concorso di persone nel reato sia all’associazione per delinquere, i due fenomeni restano caratterizzati da aspetti strutturali e teleologiche profondamente differenziati. Dal primo punto di vista, l’accordo che designa la fattispecie plurisoggettiva semplice (sia essa necessaria ovvero eventuale) è funzionale alla realizzazione di uno o più reati (anche uniti dal vincolo della continuazione), consumati i quali l’accordo si esaurisce o si dissolve (cfr., ex plurimis, Sez. I, 22 settembre 1994). Del resto, l’accordo, in tanto diviene rilevante nei confini della mera ipotesi concorsuale in quanto pervenga alla concreta realizzazione dell’assetto divisato, ad un’attività esecutiva, dunque, che non si arresti alle soglie del tentativo. Può ribadirsi, allora, che il mero accordo allo scopo dì commettere un reato, non traducendosi in un’attività di partecipazione al reato stesso, resta assoggettato al principio di ordine generale stabilito dall’art. 115 c.p. A questa regola il 1° comma di tale articolo enuncia un’espressa eccezione ma sempre relativa all’ipotesi in cui “due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso”; cosicché può contestarsi che i criteri interpretativi destinati a risolvere le (solo apparenti) antinomie fra accordo non punibile e reato associativo possano essere compiutamente individuati chiamando in causa il solo principio di specialità. E ciò per la mancanza di un vero e proprio rapporto di genere a specie, postulando il reato associativo una base plurisoggettiva qualificata, non richiesta, invece, nell’ipotesi di accordo. Una constatazione che vale anche ai fini della distinzione tra fattispecie meramente concorsuale e fattispecie associativa, rappresentando il minimum soggettivo richiesto dalla legge relativamente alla seconda categoria di reati un dato non richiesto per l’attività di mera partecipazione, così da consentire l’utilizzazione del medesimo criterio interpretativo pure – è quel che più interessa – nel discriminare le categorie ora ricordate. Per la sussistenza dell’accordo associativo, dunque, l’accordo (coessenzialmente aperto) è destinato a costituire una struttura permanente ove i singoli associati divengono – ciascuno nell’ambito dei compiti assunti o affidati – parti di un tutto finalizzato a commettere una serie indeterminata di delitti. È la struttura, anche rudimentale, del sodalizio che designa la figura associativa così da caratterizzarla per la necessaria predisposizione del programma criminoso, di dati dì assoluta singolarità e da rendere, in fondo, ininfluente l’inserimento del reato di associazione per delinquere nella categoria dei reati a concorso necessario, altri risultando gli elementi decisivi ai fini dell’identificazione dell’essenza stessa di tale reato. Predominante diviene, allora, il profilo teleologico: il particolare allarme sociale derivante dalla struttura giustifica, infatti, la previsione di una autonoma figura di reato contrassegnata, sul piano delle finalità repressive perseguite dall’ordinamento, dal pericolo per l’ordine pubblico per il cui concretizzarsi la legge non richiede, a differenza di quanto accade per l’accordo che si inserisca quale momento cruciale del reato meramente plurisoggettivo, che i delitti per la commissione dei quali la socìetas sceleris è stata costituita vengano effettivamente realizzati (cfr. Sez. VI, 12 maggio 1995, Mauriello).

24.1 Se tra accordo ed associazione fosse concorso di norme apparente per specialità della seconda, allora il primo dovrebbe contenere naturalisticamente e giuridicamente la seconda, tuttavia specializzata da altra norma, mentre è evidente che il primo non contiene affatto la seconda, e che la seconda non necessariamente contiene il primo (associazione che si costituisca gradualmente), ma, se lo contenesse, accidentalmente, non lo farebbe per specificazione di un genere ma per progressione o consunzione;

e che tra l’uno e l’altra non sia alcun rapporto, è dato dal rilievo che il primo è forma plurisoggettiva della fattispecie monosoggettiva la seconda è forma plurisoggettiva della fattispecie plurisoggettiva, è questa stessa;

e d’altronde ritenere che non sia fattispecie necessariamente plurisoggettiva pur essendo  forma costante della fattispecie, implica travisare principi  di diritto penale, fino al punto di ritenere che la deroga alla previsione di cui all’art. 115 cp “salvo che la legge disponga altrimenti”  sia riferita alle associazioni!!:

laddove non potrebbe che essere riferita ad accordi, altri da quello previsto in art. 115, essendo clausola di specialita espressa che non può non identificare fattispecie a medesimo nucleo,  specializzate, come  accade tra fattispecie generali e speciali, peraltro esistenti, quella in art. 304 cit ; a queste condizioni, la assoggettabilità della imputazione è assoluta (art. 606 co. 1 e) c.p.p.); 

25. La giurisprudenza ha chiarito come la figura di reato prevista dal l° comma dell’art. 416 bis c.p. presuppone due diversi e successivi comportamenti: l’uno attivo, consistente nel compimento di
un atto di associazione e l’altro omissivo, consistente nell’assenza di un atto di recesso (così Sez. I, 27 febbraio 1992, De Carli), cosicché il delitto di cui all’art. 416 bis si perfeziona nel momento in cui colui che ha assunto la qualità di membro del sodalizio omette di recedere e si consuma nel momento in cui lo stesso recede volontariamente (o, essendosi l’associazione sciolta o ridotta ad un numero inferiore a quello legale, il recesso o è impossibile o diviene giuridicamente irrilevante; Sez.
I, 22 aprile 1985, Fallica).

In conclusione, l’elemento materiale del reato è costituito dalla condotta di partecipazione, intendendosi per tale la stabile permanenza di vincolo associativo tra gli autori del reato (almeno in numero di tre), allo scopo di realizzare una serie di attività tipiche dell’associazione e per “tipo mafioso”, (la sussistenza degli elementi elencati dal 3° comma dell’art. 416 bis, qualificanti tal genere di organizzazione criminosa), mentre quello soggettivo rappresentato dal dolo specifico
caratterizzato dalla cosciente volontà di partecipare a detta associazione con il fine di realizzarne il
particolare programma e con la permanente consapevolezza di ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso, di essere cioè disponibile ad operare per l’attuazione del comune programma delinquenziale con qualsivoglia condotta idonea alla conservazione ovvero al rafforzamento della struttura
associativa (Sez. I, 15 maggio, 1994, Clementi).

25.1 Se le condotte fossero di partecipazione, se non si avessero anche condotte di organizzazione o di direzione, della associazione  costituita dopo la promozione,  mancherebbe il nucleo primario di essa e mancherebbe per conseguenza il nucleo secondario, della partecipazione appunto;

se le condotte dovessero essere tese alla conservazione ed al rafforzamento della associazione, da un lato sarebbero evocate  condotte sul nucleo primario non previste, essendo previste  solo quelle di promozione costituzione organizzazione etc…, ogni altra condotta sul nucleo secondario essendo detta  partecipazione;

da altro lato sarebbero sostituite le condotte primarie  tipiche,  con altre atipiche, essendo le condotte di coloro che “facciano parte” integrate da azioni od omissione tese agli scopi tipici, specificate da essi e qualificate dall’avvalimento della forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà;

condotte conservative e rafforzative, dunque,  sarebbero necessariamente  di aiuto, non meglio tipizzate, estranee alla associazione (pur se intranee ad altre fattispecie eventualmente: artt. 378, 379, 418 c.p.); per quanto ad essa riferibili;

le ricadute sulla interpretazione della imputazione sono ovvie (art. 606 co. 1 b) c.p.p.);

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26. Tutti tali connotati sono ad evidenza ravvisabili nella condotta tenuta dagli imputati, come delineata nei precedenti paragrafi.

26.1 In verità i “connotati” avrebbero dovuto essere ravvisati nella“condotta” degli imputati non come supposta dalla premessa giuridica vista, ma come descritta, insieme ai fatti relativi, dalla imputazione………

pietro diaz