Interferenze tra inammissibilità del ricorso per cassazione e prescrizione del reato

1. introduzione.

Dall’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988 a oggi, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono occupate più volte del rapporto tra inammissibilità dell’impugnazione e obbligo di immediata declaratoria delle cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p.. In particolare, si è chiesto alle Sezioni Unite di stabilire quale decisione sia prioritaria nell’ambito del giudizio di legittimità, allorché si ravvisi la contemporanea presenza di una causa d’inammissibilità del ricorso e di una causa di estinzione del reato. Quale deve dichiarare la Corte? La scioglimento del quesito non è di poco conto e involge, da una parte, considerazioni di politica criminale e di tutela dell’ordinamento, dall’altra, il principio fondamentale del favor rei. La scelta sulla priorità tra le due questioni, infatti, oltre ad incidere – come è evidente – sulla sfera di applicabilità dell’art. 129 c.p.p. (ispirata al principio de quo), interferisce in modo diretto sulle strategie difensive dell’imputato, “incentivandolo o meno alla proposizione di ricorsi dilatori, finalizzati a far maturare la prescrizione del reato”.

Senza celare che, in assenza di una norma che preveda un esplicito ordine di preferenza tra le due decisioni, una disciplina della questione affidata all’interpretazione giurisprudenziale presta il fianco all’accusa – non sopita dal richiamo alla teoria ermeneutica giusrealista – di sconfinare nelle prerogative riservate al legislatore[1]. Di qui la critica mossa da alcuni commentatori alle Sezioni Unite, a fronte della soluzione invalsa (di cui infra), di obbedire surrettiziamente agli “imperativi dell’efficienza e della lotta ai possibili abusi delle parti[2]. Invero, nella scelta rigoristica invalsa si riscontrano elementi funzionali all’obiettivo ivi inscritto (porre un freno alle “impugnazioni meramente dilatorie”), frutto dello sforzo creativo orientato verso il fine predetto, piuttosto che ancorati testualmente alla normativa vigente.

2. nel codice previgente

Prima di analizzare l’excursus giurisprudenziale menzionato, si ricorda che il rapporto controverso in esame fu oggetto di dibattito già all’epoca del codice Rocco, allorché si contendevano il campo, accanto ad una posizione intermedia, poi prevalsa, due tesi estreme: una “rigorista” e l’altra “liberale”[3]. Secondo la prima, la pronuncia d’inammissibilità era prioritaria e, per ciò, prevaleva sempre sull’accertamento delle cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p. (art. 152 del Codice Rocco): cfr. “il giudizio di merito richiesto dalla declaratoria delle cause di non punibilità in tanto sarà possibile in quanto siano già sussistenti i requisiti richiesti dalla legge per la valida costituzione del rapporto processuale; in quanto, cioè, l’impugnazione sia ammissibile[4]. Di contro, per la tesi liberale prevalevano le cause di non punibilità, in ossequio a un criterio di giustizia sostanziale e alla stessa lettera della disposizione codicistica, la quale prescriveva la dichiarazione in oggetto fino a quando il processo non fosse definito con una sentenza irrevocabile[5].

In posizione intermedia, si collocava l’indirizzo dottrinale, concepito dal Manzini, e poi ripreso dalla giurisprudenza di legittimità, anche odierna, che distingueva tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute dell’impugnazione. Solo le prime impedivano la declaratoria di prescrizione del reato, precludendo all’impugnazione di inibire il definitivo passaggio in giudicato della sentenza. Mentre le altre, concernendo vizi sopravvenuti del gravame e implicando un esame pur sommario degli atti processuali, non avrebbero ostacolato la declaratoria sopra cennata. Come anticipato, tuttavia, la distinzione tra inammissibilità originaria e inammissibilità sopravvenuta risale all’epoca del codice previgente, elaborata, dunque, in un regime processuale contrassegnato dal riparto di competenze tra giudice a quo e ad quem e dalla separazione tra il momento introduttivo del gravame (“dichiarazione”) e il momento di sviluppo argomentativo di esso (“motivi”). Alla stregua di tale separazione, l’atto d’impugnazione era invalidato ab origine solo dai vizi infestanti la “dichiarazione” (quale manifestazione della volontà di non acquiescienza alla pronuncia impugnata), i quali non impedivano il passaggio in giudicato della sentenza (impugnazione proposta da soggetto sprovvisto di legittimazione, ovvero avverso a provvedimento non assoggettato all’impugnazione proposta, dichiarazione non presentata nella forma, nel tempo e nel luogo prescritti). In tali casi, già esauritosi il procedimento, l’art. 152 c.p.p. Rocco (oggi 129) non avrebbe potuto applicarsi, con seguente dichiarazione dell’inammissibilità in via prioritaria[6]. Ove, invece, i vizi del gravame avessero colpito i “motivi” (omessi o irritualmente presentati), essendo ancora in corso il procedimento per effetto di una valida dichiarazione, “il giudicato penale si sarebbe prodotto solo quando l’impugnazione fosse stata dichiarata inammissibile  da parte del giudice ad quem, in base all’art. 209 c.p.p. [Rocco]”. Onde, “l’ordinanza che sanciva l’inammissibilità sopravvenuta del mezzo d’impugnazione aveva natura costitutiva ed effetto ex nunc[7]. Non si ravvisava, in tali ipotesi, alcun ostacolo insuperabile ad una declaratoria di eventuali cause di non punibilità ai sensi dell’allora vigente art. 152 c.p.p. Rocco. Stesso discorso per l’impugnazione proposta da soggetto carente di interesse e per gli specifici casi di inammissibilità del ricorso per Cassazione, vale a dire i motivi non consentiti o manifestamente infondati (art. 524 c.p.p. Rocco), tutti ritenuti cause sopravvenute, non preclusive, conseguentemente, della dichiarazione di non punibilità, concernendo i motivi e, dunque, “l’atto integrativo” del rapporto d’impugnazione[8].

3. nel codice vigente

Nell’attuale sistema processuale, con l’art. 581 c.p.p., scompare la distinzione tra dichiarazione e motivi, racchiusi ora in unico atto e soggetti ad identico termine per la presentazione. Le cause di inammissibilità dell’impugnazione sono ora tutte individuate, in via generale, dall’art. 591 c.p.p., il quale accomuna le ipotesi olim definite originarie o sopravvenute (carenza di legittimazione e di interesse, inoppugnabilità del provvedimento, inosservanza delle norme concernenti la forma, la presentazione, la spedizione e i termini di impugnazione, nonché il regime delle ordinanze emesse in dibattimento e la rinuncia), prescrivendo al comma 2 che il giudice dell’impugnazione, anche d’ufficio, dichiari con ordinanza l’inammissibilità dell’impugnazione e disponga l’esecuzione del provvedimento impugnato[9]. Alla stregua di tali premesse, non è parso vi fosse più ragione per accogliere nell’alveo delle cause originarie d’inammissibilità quelle sole ipotesi che viziano la dichiarazione del gravame. A rigore, invero, pressoché ogni inammissibilità sarebbe “originaria” (esclusa la rinuncia all’impugnazione). Pertanto, anche il discrimen causa originaria/causa sopravvenuta è parso desueto. Si è continuato, nondimeno, a discernere la natura originaria o sopravvenuta delle cause d’inammissibilità, ricercando un nuovo confine tra esse[10].

Nel solco di tale impostazione, si è ridata dignità alla distinzione in esame alla stregua dell’art 648 c.p.p., a mente del quale, oltre all’ipotesi delle “sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione” (comma 1), solo l’impugnazione tardiva colloca l’irrevocabilità della sentenza al momento del verificarsi della causa di inammissibilità. Quest’ultima, dunque, è originaria se riconducibile all’inosservanza del termine per impugnare o alla dichiarazione di inoppugnabilità della sentenza; sopravvenuta in tutti gli altri casi, ove l’irrevocabilità consegue non già alla sola verificazione della causa di inammissibilità, ma alla sua dichiarazione con provvedimento, a sua volta irrevocabile[11]. Pertanto, poiché fino al momento in cui la sentenza non sia definitiva, il processo non può considerarsi definitivamente concluso, “il giudice davanti al quale esso è pendente ha il potere-dovere, in presenza dei relativi presupposti, di pronunciare la sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 129 c.p.p.” (Cass., Sez I, 8 ottobre 1990). Come è stato sottolineato, il punto di forza di tale orientamento risiede nel richiamo all’unica norma del codice che esplicitamente considera il rapporto tra inammissibilità dell’impugnazione e irrevocabilità della sentenza. Nella porzione di tempo intercorrente tra impugnazione e declaratoria di inammissibilità, il processo è ancora in vita, onde il sopraggiungere della prescrizione del reato impone al giudice di dichiararla d’ufficio con sentenza[12].

4. plurimi interventi delle Sezioni Unite

Dalla suddetta tesi la dottrina si è discostata, poiché ritenuta conforme a “concezione meramente formale del giudicato”, incurante della figura del c.d. “giudicato sostanziale” (collocato al momento dell’insorgenza della causa di inammissibilità)[13]. Anche le Sezioni Unite della Cassazione respingono la soluzione rinvenuta nell’art 648 c.p.p.. La Corte, sulla scorta di tale assunto, inaugura la nota serie di interventi sull’uso strumentale delle impugnazioni,  incentrati sulla verifica della sussistenza o meno di una richiesta di esame sul merito del gravame. Nella prima pronuncia del 1994 (Cass., Sez Un., 11 novembre 1994), la Corte esclude da subito la rilevanza dell’art. 648 c.p.p., giacché “la disposizione in questione, come emerge dalla sua collocazione, è diretta a disciplinare il giudicato ed a segnare l’inizio della fase esecutiva, mentre è dalle norme che regolano il processo che deve trarsi la disciplina dei rapporti tra cause di inammissibilità e cause di non punibilità, al fine di stabilire quale tra esse debba prevalere”.

Si perviene così a quell’excursus giurisprudenziale che comprimerà, fino ad annullarla, l’operatività dell’art. 129 c.p.p.. Le riflessioni delle Sezioni Unite si focalizzano sul  momento in cui la decisione di merito debba ritenersi preclusa: ”quello in cui la causa di inammissibilità si verifica? O quello in cui la stessa è stata dichiarata? In altre parole, l’ordinanza di inammissibilità ha natura dichiarativa (con effetto ex tunc) o costitutiva (con effetto ex nunc)?[14] Quesiti risolti affidandosi, in principio, alla tradizionale separazione tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute, istituita questa volta alla stregua dell’esigenza o meno di un esame sul merito del ricorso.

Dapprima sono ritenute originarie tutte le cause di inammissibilità previste dall’art. 591 c.p.p. (con eccezione della rinuncia)[15]. Si tratta dell’impugnazione proposta da chi non è legittimato o non ha interesse, del gravame proposto contro provvedimento inoppugnabile e della violazione delle disposizioni degli artt. 581, 582, 583, 585 e 586 c.p.p., disciplinanti rispettivamente le modalità concernenti forma, presentazione, termini e spedizione dell’impugnazione, nonché i limiti di inoppugnabilità delle ordinanze. Per contro, sono reputate “sopravvenute” (quindi non preclusive dell’applicazione dell’art. 129 c.p.p.), giacché implicanti “un esame, a volte anche approfondito, degli atti processuali”, le cause di inammissibilità indicate nell’art. 606, comma 3 c.p.p. (motivi non consentiti, manifestamente infondati e per violazioni di legge non dedotte con i motivi d’appello). In particolare, si è osservato che “il discrimine tra manifesta infondatezza e (semplice) infondatezza dei motivi è incerto e pone il giudice di fronte a una scelta talvolta opinabile, che nondimeno agli effetti pratici non è fonte di conseguenze radicalmente diverse se concerne solo l’alternativa tra inammissibilità e rigetto del ricorso, mentre diventerebbe assai impegnativa se l’inammissibilità per manifesta infondatezza dovesse considerarsi preclusiva di un proscioglimento a norma dell’art. 129 c.p.p.” (Cass., Sez. Un., 11 novembre cit.; conforme Cass., Sez., Un., 24 giugno 1998, n. 11493).

Ulteriore pronuncia delle Sezioni unite (Cass., Sez. Un., 30 giugno 1999, n. 15) ha qualificato “originarie” “quelle cause che, attenendo ai requisiti formali dell’atto di impugnazione o ai presupposti legislativamente previsti per il valido esercizio del diritto di impugnazione, e non involgendo un giudizio di merito, impongono di adottare una decisione in limine, semplicemente dichiarativa della mancata instaurazione di un valido rapporto processuale, tanto da impedire l’inutile prosecuzione di un’attività comunque destinata a pervenire, a norma dell’art. 591 comma 4 c.p.p., anche a posteriori, ad un accertamento negativo della pendenza di un processo. In tale ipotesi si è, infatti, in presenza di un simulacro di gravame che il provvedimento che ne dichiara l’inammissibilità, per sua natura dichiarativo, rimuove dalla realtà giuridica fin dal momento della sua origine”. Dunque, oltre alle cennate ipotesi indicate nell’art. 591 c.p.p., sono ritenute (inammissibilità) originarie altresì: l’enunciazione di motivi non consentiti e la denuncia di violazioni di legge non dedotte con i motivi d’appello. In entrambi i casi si ravvisa il difetto ab origine dell’impugnativa. Nel primo, è carente un requisito necessario – data la natura di gravame a critica vincolata – a qualificare l’atto come ricorso per cassazione. Nel secondo, in forza del combinato disposto degli artt. 606, comma 3 e 609, comma 2, c.p.p., l’impugnazione è “inidonea a devolvere alla suprema Corte la cognizione di questioni già precluse”[16], e, quindi, a intaccare il giudicato già formatosi.

Rispetto all’orientamento precedente, residua, tra le cause di inammissibilità sopravvenute, la sola manifesta infondatezza dei motivi. In tale ipotesi – evidenzia la sentenza in esame – vi sarebbe una fattispecie peculiare in cui la natura preliminare dell’esame di inammissibilità dell’impugnazione non impedisce alla Corte di pronunciare l’estinzione del reato, “per insopprimibili ragioni logiche, solo in esito ad una delibazione sulla fondatezza della censura. Lo stretto legame con il merito rende perciò […] ininfluente la preclusione dell’esame di merito che – secondo i principi generali –deriverebbe dall’inammissibilità dell’impugnazione, perché l’inammissibilità in esame di per sé già si colloca sostanzialmente tra le statuizioni di merito”. Ed è, appunto, la collocazione all’interno del grado del processo per cassazione che, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., consente – secondo tale ricostruzione – di pronunciare l’estinzione del reato ove sia maturata la prescrizione.

Un ennesimo intervento delle Sezioni Unite rovescia tale assunto: “l’inammissibilità del ricorso per cassazione  dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. (nella specie la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata)” (Cass., Sez Un., 22 novembre 2000, n. 32). Anche la manifesta infondatezza del ricorso, quindi, si aggiunge all’elenco delle cause d’inammissibilità originarie, operanti ex tunc, cioè dal momento in cui l’atto di impugnazione è presentato e non da quello in cui è dichiarato invalido. Il gravame è considerato tamquam non esset ed il giudicato retroagisce allo scadere del termine per l’impugnazione della sentenza d’appello. Si nega, in sostanza, senza eccezioni, che sia configurabile un potere di decidere il merito nonostante l’inammissibilità del gravame. Ciò in quanto, il giudice, nel valutare l’ammissibilità dell’impugnazione, “statuisce in ordine al proprio potere di decidere il merito della questione”, non potendo darsi, in caso di accertamento negativo, impulso necessario alla trattazione del ricorso, mancando di forza propulsiva l’atto di gravame, incapace per tale ragione di accedere all’ulteriore stato e grado del processo che consentirebbe la declaratoria della prescrizione ex art. 129 c.p.p.. Solo apparentemente, pertanto, il vaglio di inammissibilità (in caso di manifesta infondatezza) verterebbe sul contenuto del gravame, essendo in realtà circoscritto alla verifica della valida instaurazione del giudizio di legittimità. Il giudice non interloquisce sul tema del procedimento, ma sulla conformità dell’atto al suo modello legale di riferimento (dato dall’art. 606 c.p.p.)[17].

Più precisamente, le Sezioni Unite osservano che “la coppia di valori ammissibilità-fondatezza, inammissibilità-infondatezza, così come delineata dalla legge, non ammette l’introduzione di zone grigie, cosicché la manifesta infondatezza, collocata nell’alveo dell’inammissibilità, resta in quest’ambito definita da dati di ordine qualitativo che ne provocano l’assimilazione – sul piano della struttura e della funzione – agli altri casi di inammissibilità previsti dalla legge”. In tutte e tre le figure menzionate dall’art. 606, comma 3 c.p.p. è riscontrabile un legame con la “tipizzazione delle vie di accesso alla Corte Suprema” in coerenza con il vigente giudizio di legittimità fondato su “un sistema di devoluzione rigorosamente prestabilito[18]. Onde, anche il controllo finalizzato a rilevare l’evidente inconsistenza delle argomentazioni formulate dal ricorrente si risolve in “una verifica preordinata alla constatazione dell’esistenza di censure non iscrivibili nel paradigma dell’art. 606, comma 1 c.p.p.”, verifica idonea, in caso di esito positivo, a privare il gravame “di quell’impulso necessario a originare il giudizio di impugnazione[19]. Alla luce di tali notazioni, quindi, non è tanto al grado di difficoltà della verifica che occorre fare riferimento, quanto “all’assenza di ogni scrutinio contenutistico del ricorso[20].

Riassumendo, si osserva come, prendendo le mosse dalla distinzione tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute, le Sezioni Unite siano pervenute a considerare le cause di inammissibilità come una categoria unitaria, da cui scaturisce un solo effetto: non poter decidere il merito del ricorso. Tale assunto è ribadito in successive pronunce delle stesse Sezioni Unite, ancora in tema di interferenze tra prescrizione del reato e inammissibilità del ricorso per cassazione. Si tratta, in particolare, della prescrizione maturata indi la sentenza di secondo grado (ma prima del ricorso: Cass., Sez. Un., 27 giugno 2001, n. 33542), e della prescrizione maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza d’appello (ma non dedotta dalla parte né rilevata dal giudice: Cass., Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 23428). In coerenza con l’orientamento sopra esposto, entrambe le decisioni, sul presupposto dell’inammissibilità (per violazione del criterio della specificità dei motivi) del ricorso per Cassazione, negano che l’intervento della prescrizione – quale che sia il momento in cui esso si realizzi – possa farsi valere ai sensi dell’art 129 c.p.p.. Difatti, stante l’inammissibilità del ricorso e posto che essa “paralizza i poteri del giudice a partire dal momento in cui si verifica” (anziché dal momento in cui viene dichiarata), non vi sarebbe  possibilità – da parte della Corte di Cassazione – di dichiarare l’estinzione del reato ex art. 129, sia che questa succeda al verificarsi della causa d’inammissibilità, sia che la preceda[21]. Conseguendo ciò, dicevasi, all’intrinseca incapacità dell’atto invalido di accedere davanti al giudice dell’impugnazione[22] (i cui poteri di decidere il merito sono, appunto, “paralizzati”), onde la sentenza impugnata, se aggredita con gravame inammissibile, non potrebbe inibire il formarsi del giudicato (sostanziale).

Detto orientamento è confermato, da ultimo, nella recente Cass., Sez Un., 25.03.2016, n. 12602: “L’inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la rilevabilità d’ufficio della prescrizione del reato maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, non eccepita nel grado di merito e non rilevata da quel giudice né dedotta con i motivi di ricorso”. La pronuncia or detta ribadisce, in proposito, che “solo dopo aver verificato l’ammissibilità dell’impugnazione il Giudice possa decidere nel merito del processo; viceversa, qualora sia dichiarata l’inammissibilità dell’impugnazione, non può aver luogo alcuna pronuncia sul merito”, giacché saremmo “di fronte ad un atto processuale invalido e, quindi, inidoneo ad attivare il corrispondente rapporto processuale”. Non potrebbe, per ciò, riconoscersi alla prescrizione alcuna effettività sul piano giuridico, rimandando la stessa relegata “nella categoria dei fatti storicamente verificatisi ma giuridicamente indifferenti per essersi già formato il giudicato sostanziale” (cfr. Cass., Sez Un. n. 12602 cit.).

5. conclusioni critiche

A chiosa e commento dei cennati interventi, deve riprendersi quanto accennato all’inizio, a proposito del timore che la descritta visione del rapporto tra inammissibilità e art. 129 c.p.p. sia animata più dalla esigenza (rectius, volontà) di conseguire un certo risultato, frutto della spinta eteronoma dell’ideologia, che da una coerenza interna all’ordinamento processuale. Perplessità che nasce dalla dichiarata finalità – manifestata nelle sentenze delle Sezioni Unite – di evitare che la potestà d’impugnare sia esercitata “come strumento, non soltanto per procrastinare la formazione del titolo esecutivo, ma anche per conseguire effetti di favore di ordine sostanziale in presenza di un gravame soltanto apparente. In un regime in cui al favor impugnationis (quale ricavabile da numerosi precetti del codice di rito) fa da rigoroso contrappunto l’esigenza di conformare l’atto di impugnazione ai requisiti prescritti dalla legge” (cfr. Cass. Sez Un.,, n. 32/2000, n. 23428/2005); “[Le ipotesi di inammissibilità] sono, per lo più, espressione di un tatticismo difensivo a fini dilatori, che mira a procrastinare il passaggio in giudicato formale della sentenza , nella prospettiva spesso di propiziare la scadenza dei termini di prescrizione” (cfr. Cass. Sez Un, n. 12602/2016).

La preoccupazione di arginare “ricorsi meramente dilatori” ha propiziato il consolidamento della tesi rigoristica, volta a scoraggiare condotte “opportunistiche[23]. Nondimeno, il rischio insito in un approccio siffatto è la forzatura ermeneutica del dato normativo. Rischio, quello de quo, di cui la stessa Corte di legittimità è conscia, allorché riconosce che nel sistema processuale “v’è la contemporanea presenza di norme che impongono al giudice obbligatorie declaratorie dal contenuto antitetico, senza stabilire alcun ordine di priorità tra le stesse pronunce” (cfr. Cass., n. 12602 cit.). Al riguardo, non si comprende, ad esempio, la facilità con cui si sia scartata la soluzione fondata sull’art. 648 c.p.p., unico appiglio esplicito al codice di rito, a favore di una nozione di giudicato sostanziale, “priva di chiara legittimazione normativa[24]. Per contro, asserire che il giudicato si formi automaticamente con l’insorgere della causa di inammissibilità e non al momento della sua dichiarazione – con ordinanza – da parte del giudice, è il risultato di una scelta normativa che dovrebbe, per ciò, ancorarsi al diritto positivo. In ogni caso, anche a voler trascurare la soluzione offerta dall’art. 648 c.p.p., si osserva che le Sezioni Unite non hanno approfondito il tema della definizione dei “poteri cognitivi del giudice del gravame allorché è chiamato a verificare l’ammissibilità dell’impugnazione[25].

Se è vero, infatti, che le parti hanno l’onere di rispettare determinati requisiti di ammissibilità al fine di introdurre il procedimento di impugnazione e di far si che operi l’effetto devolutivo[26], è altresì vero che la violazione dei requisiti de quibus preclude unicamente l’esame del contenuto del gravame, il quale postula l’impulso di parte (e quindi dell’assolvimento del suddetto onere), ma non involge, inibendola, l’efficacia di una norma di favore come quella prevista dall’art. 129 c.p.p., espressamente applicabile d’ufficio e la cui attuazione non implica alcun esame sul merito dell’impugnazione[27]. Nessuna norma processuale supporta tale assunto preclusivo che, nondimeno, le Sezioni Unite, nelle  pronunce cennate, hanno mostrato di considerare pacifico, [in]adempiendo alla funzione nomofilattica con esiti che non possono certo dirsi ispirati a criteri di giustizia, se non per antifrasi.

D’altro canto, se “inammissibilità” è espressione ellittica di “inammissibilità nel merito” ed essa è “la qualifica giuridica di quella domanda che non ha attitudine a vincolare il giudice ad emettere una pronunzia sul merito di essa” (Delogu), allora vi è da chiedersi se non siano ravvisabili due distinti rapporti processuali, quello relativo al merito dell’impugnazione, ex art. 609, co. 1 c.p.p. (istituito da un valido atto di impugnazione) e quello (ispirato al principio del favor rei) relativo alla verifica delle questioni rilevalibili d’ufficio in ogni stato e grado del processo, ex art. 609, co. 2 c.p.p. (istituito da un tempestivo atto di impugnazione). Desta perplessità, in proposito, l’abbandono radicale della distinzione tra dichiarazione e motivi dell’impugnazione (vd. supra), la quale (distinzione), seppur scomparsa dalla struttura materiale dell’atto, non pare sia scomparsa pure concettualmente da esso. Invero, se con la richiesta di impugnazione inclusa nell’atto de quo si manifesta (ora implicitamente) la volontà di non prestare acquiescienza al provvedimento impugnato, rilevante alla stregua degli effetti del c.d. giudicato formale (ex art. 648 c.p.p.), con l’enunciazione dei motivi si esprimono le specifiche ragioni per cui la decisione sarebbe ingiusta o contra legem, vincolando la Corte alla pronuncia su essi. A tale stregua, l'(eventuale) mancata instaurazione del rapporto processuale sui “motivi” non inibisce la formazione del rapporto sulle cennate questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo, evitando con ciò l’incogruenza (e l’iniquità) dell’inclusione della prescrizione “nella categoria dei fatti storicamente verificatisi ma giuridicamente indifferenti“. Non vi sarebbe, in tal senso, alcuna (illogica) dissociazione o scarto tra efficacia estintiva (del decorso del tempo) e sua realizzazione, situandosi, invero, l’effetto (estintivo) de quo, nella categoria modale dell’effettività, nella quale il relativo effetto sorge nel preciso momento in cui si conclude il fatto giuridico condizionante (contrariamente alle categorie modali, prospettiche, della necessità e della possibilità, ove vi è dissociazione tra effetto e sua realizzazione). In altre parole, il rigore logico del c.d. principio di simultaneità giuridica (Falzea), fondato sulla corrispondenza biunivoca tra perfezione della fattispecie condizionante (decorso del tempo) ed efficacia condizionata (estinzione del reato per carenza dell’interesse dello Stato a esercitare la pretesa punitiva), non (ammette o) lascia spazio alla configurazione della  verifica sull’ammissibilità della cognizione del ricorso (“cognizione dei motivi propostiex art. 609, co. 1 c.p.p. ), quale fatto impeditivo di pronuncia che attiene a profilo distinto, cioé quello, ripetesi,  delle “questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado” (ex artt. 129, 609, co. 2 c.p.p.).

Rispetto a ciò che è lecito enucleare dalla legge vigente, l’interpretazione giurisprudenziale introduce, per ciò, un asserto abusivamente prescrittivo (rectius preclusivo)[28], interpolando la legge suddetta (“l’inammissibilità del ricorso osta all’applicazione ex officio dell’art 129 c.p.p.”). Senonché, disancorato, questo asserto, dal dato normativo positivo (cioé in carenza delle relative condizioni di verità), unico riferimento in grado di attribuire efficacia giuridica alle proposizioni de quibus, non pare suscettibile di essere accolto nell’ordinamento penale fino a che il legislatore non dica (rectius prescriva) che l’efficacia dell’art 129 c.p.p. (norma di favore applicabile d’ufficio) postuli esame del merito dell’impugnazione. In altre parole, la pronuncia di inammissibilità del ricorso non potrebbe essere fatto giuridico (processuale) dotato della pretesa efficacia preclusiva, o meglio, sarebbe fatto (processuale), ma non giuridico (e per ciò non condizionante) rispetto all’effetto preclusivo de quo, in assenza di norma che tale effetto gli conferisca. Anzi, essendovi norma che, per contro, mantiene separati il profilo del merito dell’impugnazione (art. 609,co. 1 c.p.p.) da quello delle questioni (comunque rilevabili) espressione del favor rei (art. 609, co. 2 c.p.p.), la cennata preclusione sarebbe non solo surrettizia, ma addirittura incompatibile con il vigente ordinamento.  In ogni caso, le relative questioni, dicevasi, sono rimaste inesplorate (o affrontate apoditticamente), benché costituissero (e costituiscano), tuttavia, il presupposto indefettibile dell’esito giurisprudenziale, il quale, confinato in un contesto normativo che sul punto non offre spunti ermeneutici (o ne offre addirittura di contrari), non potrebbe, ripetesi, trovare accoglienza nell’ordinamento vigente, onde pervenire al risultato ricercato. Per questi motivi, si ritiene illegittimo l’approdo rigoristico della Corte di Cassazione, il quale fornisce un’interpretazione uniforme, ma surrettizia, della legge, oltre che contraria al principio del favor rei, causa di effetti nefasti in punto di coerenza sistematica, tanto più gravi perché conseguiti in vista di un supposto fine etico.
Carlo Manca

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GIURISPRUDENZA CITATA
Cass., pen. Sez. I, 8 ottobre 1990.
Cass., pen. Sez. Un., 11 novembre 1994.
Cass., pen. Sez. Un., 24 giugno 1998, n. 11493.
Cass., pen. Sez. Un., 30 giugno 1999, n. 15.
Cass., pen. Sez. Un., 22 novembre 2000, n. 32.
Cass., pen. Sez. Un., 27 giugno 2001, n. 33542.
Cass., pen. Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 23428.
Cass., Pen., Sez Un., 25.03.2016, n. 12602.

[1]                      Scella, Il vaglio d’inammissibilità dei ricorsi per cassazione, Torino, 2006, pp. 135-136, secondo la teoria giusrealista dell’interpretazione, anche il giudice più fedele alla legge non può, in qualche senso, non creare diritto. Di qui l’aporia per cui il giudice non deve creare diritto, eppure non può non crearlo
[2]                      Marafioti , Selezione dei ricorsi penali e verifica d’inammissibilità, Torino, 2004, p. 152.
[3]                   Ciavola, Le Sezioni Unite superano la tradizionale distinzione tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute e pongono un importante freno alla prassi dei ricorsi manifestamente infondati o pretestuosi, in Cass. Pen., 2001, p. 2988.
[4]                    Ibidem.
[5]                    Ibidem; Marafioti, op.  cit, p. 135.
[6]                    Così in Cass., Sez. Un., 22 novembre 2000, n. 32
[7]                   Orlandi, Se la condanna è per un reato prescritto, in D&G, 2005, p. 58; va ricordato che il giudice a quo, pur in presenza di una causa sopravvenuta dell’impugnazione da lui rilevabile (omessa presentazione dei motivi, presentazione dei motivi in violazione delle prescrizioni concernenti la forma il tempo ed il luogo, omessa esecuzione delle notificazioni prescritte a pena di decadenza, rinuncia all’impugnazione), aveva il dovere di rimettere gli atti al giudice ad quem, ai sensi dell’art 208 del Codice Rocco, nel caso in cui dovesse trovare applicazione l’art 152 c.p.p. del 1930.
[8]                    Cass., Sez. Un., 22 novembre 2000, n. 32, cit.
[9]                    Ibidem; “per i motivi manifestamente infondati e per quelli non consentiti, il legislatore del 1988 ha, poi, soppreso la disposizione che conferiva al difensore la potestà di far trattare il ricorso in pubblica udienza”.
[10]                  Scella, op. cit., pp. 138-139.
[11]                  Ibidem; Orlandi, op. cit., p. 59.
[12]                Orlandi, op cit., p. 61; Presutti, Ancora un intervento delle Sezioni Unite in tema di inammissibilità della impugnazione e declaratoria ex art 129 c.p.p., in Cass. pen., 2000, p. 843.
[13]                  Ciavola, op. cit., p. 2990.
[14]                  Orlandi, op cit. p. 62
[15]          Anche il vizio derivante dalla cosiddetta genericità dei motivi viene attratto nella sfera delle cause di inammissibilità originarie, facendosi leva sull’art. 581 lett. c) c.p.p.. Va detto che le Sezioni Unite sembrano individuare nell’art. 581 la linea di confine tra cause originarie e cause sopravvenute. “Ma resta il fatto che nella successiva evoluzione giurisprudenziale il richiamo è stato inteso come operato all’art. 591 c.p.p.”, così Scella, op. cit., pp. 140-141 (nota 94); Marafioti , op. cit, p. 139.
[16]                  Scella, op. cit., pp. 143-144.
[17]              Carnesecchi, Gli ermellini: addio tattiche dilatorie, in D&G, 2006, p. 45; Scella, op. cit., pp. 145-147; Orlandi , op. cit., p. 62.
[18]                  Cass., Sez. Un., 22 novembre 2000, n. 32, cit.
[19]                  Scella, op. cit., p. 147.
[20]        Cass., Sez. Un., 22 novembre 2000, n. 32, cit., in cui si precisa che, frequentemente, la manifesta infondatezza “si traduce nella proposizione di censure caratterizzate da evidenti errori di diritto nella interpretazione posta a sostegno del ricorso, il più delle volte contrastate da una giurisprudenza costante e senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l’opposta tesi, ovvero invocando una norma inesistente nell’ordinamento”
[21]                   Orlandi, op. cit., p. 63.
[22]                   Cass., Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 23428
[23]             Punta su questo aspetto Marafioti, op. cit., p. 141 ss.; Nega la soverchia influenza di finalità anzidetta Scella, op. cit., p. 148, secondo il quale “si tratta di un orientamento giurisprudenziale capace di condurre a esiti altrettanto apprezzabili pure laddove l’impugnazione inammissibile non sia stata proposta a fini dilatori, nell’intento di ottenere la prescrizione. È quanto avviene, ad esempio, nel caso di prescrizione maturata prima della pronuncia della sentenza d’appello, ma non rilevata né dedotta nel corso del medesimo giudizio di secondo grado”(Cass., Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 23428, cit.)
[24]                  [24] Marafioti , op. cit., p. 142.
[25]                  [25] Ciavola , op. cit., p. 2992.
[26]                  [26] Ibidem.
[27]                  [27] Marafioti, op. cit., pp. 142-143.
[28]        Varzì, Nolte, Rohatyn, Logica, Milano, 2004: “la distinzione tra un’asserzione (o una proposizione) e un enunciato usato per esprimerla è importante. Un enunciato può essere ambiguo o dipendente dal contesto, e può quindi esprimere una qualsiasi di due o più asserzioni – anche asserzioni che hanno valori di verità opposti”

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