Archivio mensile:Novembre 2018

Sull’accusa di falsità ideologica in atto pubblica rivolta al sindaco di Roma.

Il fatto non costituisce reato, ha detto la sentenza che ha assolto il sindaco di Roma.
Ciò implica tecnicamente che il fatto fu, ma che gli mancò qualcosa per costituire reato. E, secondo cronache, gli sarebbe mancata la coscienza e la volontà, nell’autore, di mentire, sarebbe mancato “il dolo”.
Ma quale fatto, di reato, sarebbe stato?
Quello di falsità ideologica in atto pubblico commessa da pubblico ufficiale, di cui all’art 479 cod pen..
Che si ha quando il p.u., munito del potere (art. 2699 cod. civ.) appositamente conferitogli dalla legge (ed esercitabile anche a richiesta di parte, come il notaio che sia chiamato a raccogliere un testamento od una vendita), attestando per dargli pubblica fede (dinanzi alla collettività) che ha fatto qualcosa (si è recato nella abitazione del testatore), ha ricevuto qualcosa (la dichiarazione del testatore), ha constatato qualcosa (che il testatore giaceva nel suo letto affaticato ma lucido ed in grado di esprimersi), che in sua presenza è avvenuto qualcosa (sono comparsi parenti del testatore offrentisi a testimoni); che ciò è accaduto in precisi ora mese giorno anno e luogo:
(quando il p.u., dicevasi, ciò riferendo)attesti il falso (come si vede negli esempi, il rapporto tra attestazione e fatto è organico, non ha margini di sorta, affinché, messo eventualmente a confronto con la realtà esterna, sia possibile dirne se è vero o falso).
Allora e solo allora si ha falsità ideologica del pubblico ufficiale in atto pubblico.
D’altronde è chiarissimo in tal senso l’art 479 cp:
Il pubblico ufficiale che ricevendo o formando un atto nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito…
Senonché, sempre per cronache:
– Raggi, pubblico ufficiale quale sindaco di Roma e così stipulante un contratto per la dirigenza comunale;
– in occasione del controllo preventivo di legittimità del contratto da Anac (autoiritanazionaleanticorruzione) invitata a darne informazioni (nella qualità di contraente ripetesi) presentando una “memoria” ;
– ne avrebbe dato di “non veritiere” (si riporta la dizione in tema usata dall’art 213 Codice Anac) .
Ora:
già la “memoria” nei suoi termini, discrezionalmente narrativi o ipotetici o condizionali o valutativi (termini per ciò non giudicabili come veri o falsi, al raffronto immediato con la realtà esterna) è informativa, non attestativa.
Comunque:
– se è un documento soggettivamente pubblico non è certo un atto pubblico (che manifesta e determina la volontà funzionale del pubblico ufficiale);
– se contiene una informazione non contiene una attestazione;
– se è interna a procedimento amministrativo, da questo provocata e in funzione di questo emessa, non è atto pubblico attestativo invece esterno ad ogni procedimento che non sia il proprio:
perché indipendentemente veritativo, tale rispetto alla funzione pubblica assegnatagli in art 2699 cc, 479 cp, e col valore probatorio erga omnes di cui a queste disposizioni;
– se il suo redattore era un pubblico ufficiale, non lo era quale attestatore pubblico ma quale contraente pubblico chiamato a dare conto del contratto;
– d’altronde la memoria ciò faceva esplicitamente: il ruolo di R. Marra fu «di mera pedissequa esecuzione delle determinazioni da me assunte, senza alcuna partecipazione alle fasi istruttorie, di valutazione e decisionali»;
– essa diceva esclusivamente di posizioni interne al pubblico ufficiale,non di fatti (o atti) a lui esterni (oggetto esclusivo della “attestazione”). Tanto che la smentita, la prova della falsità, il magistrato requirente la affideràad un argomento indiziario, non alla rappresentazione della verità fattuale: (sempre secondo cronache) “se la sindaca avesse detto la verità riconoscendo che Raffaele Marra aveva ricoperto un ruolo decisivo nella scelta del fratello, l’apertura di un procedimento penale a suo carico sarebbe stata assai probabile. E lei era consapevole che in casi di iscrizione a modello 21 (ovvero come indagata) avrebbe rischiato di perdere il posto perché era quanto prevedeva il “Codice Etico”. E’ questo il movente della sua bugia”.
Ed un altro magistrato in veste di testimone della accusa: “Sicuramente Marra ha avuto un’influenza nel nominare il fratello Renato alla Direzione di turismo, la sua di certo non era una mera attività compilativa” (in proposito: a parte che uninfluenza” sarebbe posizione interiore del p.u.: essaè attestabile positivamente o negativamente?).
Quindi:
non vi fu falsità ideologica del pubblico ufficiale (quale inverso esatto della verità certa).
Se qualcosa di “non veritiero” fosse stato emesso, manteneva la rilevanza nell’ambito del procedimento Anac il cui Codice, peraltro, per prevenirla, la sanziona con ammende (art 213), senza mai richiamare il codice penale (benché è uso che sia fatto ove sia voluto).
E a proposito:
è per ciò che la difesa del Sindaco, sempre stando alle cronache, avrebbe sollecitato la assoluzione “perchè il fatto non sussiste”?
E’ più probabile che lo abbia fatto escludendo la falsità del contenuto della memoria. Altrimenti, visto quanto sopra, avrebbe sollecitato assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato (veridica o no la memoria, ciò la legge non lo considera reato).
Ma così stando le cose, il dr Ielo non avrebbe dovuto accusare Raggi di falsità ideologica in atto pubblico.
Gli va comunque riconosciuto che la imperizia della giurisprudenza in materia di delitti contro la fede pubblica, talora involontaria, talaltra diretta ad altro fine che la retta interpretazione della legge (come quando un reato di falso a minor pena e minor tempo di prescrizione è rimpiazzato da altro a maggior pena e maggior tempo di prescrizione) ha raggiunto livelli impensabili anni addietro (di sua mano sono stati distrutti funzione e ruolo dell’atto pubblico fidefacente e del suo attore: nuclei della certezza del traffico giuridico).
Pietro Diaz

 

Logorrea del diritto e caso Cappato

1.Tale “DJFabo”, dopo un sinistro stradale gravemente infermo e irreversibilmente e insopportabilmente sofferente, deciso a porvi fine, consulta i Radicali Marco Cappato, Lina Welby e altri (del “giro” suicidiofilo ed eutanatofilo ).
Questi gli prospettano la pratica della “sedazione profonda”, con sospensione dei supplementi respiratori e alimentatori e attesa della morte dolce (gli prospettano eutanasia, dove la propria morte, voluta , è da altri indotta).
Egli tuttavia preferisce il suicidio (dove la propria morte, voluta, è da sé indotta), con modalità (anch’essa) dolce, eu, da eseguirsi in un Centro svizzero opportunamente attrezzato.
Presi contatti e intese tramite i familiari, vi è condotto in automobile da Cappato.
Ivi giunto, verificata accuratamente, in lui, la persistenza della volontà del suicidio, è posto ad eseguirlo mediante assunzione, da sé, di un farmaco letale.
2. Cappato, che aveva esplicitamente agito per “disobbedienza civile”, (con Welby) è accusato di “rafforzamento dell’altrui proposito di suicidio” e di “aiuto al suicidio”. E, prosciolto dalla prima accusa, è rinviato a giudizio sulla seconda, davanti la Corte di Assise di Milano. Per rispondere del reato di cui all’art 580 del codice penale.
La Corte, ritenuta (sostanzialmente) la configurabilità del “diritto al suicidio”, a conclusione di un lungo discorso (qui sintetizzato al massimo) dalle implicazioni logiche non sempre controllate, nel quale infatti:
– la inviolabilità della libertà personale posta in art. 13 della Costituzione darebbe anche libertà di suicidio (cioè darebbe libertà di violare l’inviolabile, sia pure dal suo titolare?);
– il “diritto alla vita” (art.2) della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, darebbe anche diritto di ucciderla (cioè darebbe “diritto di morte”, sia pure per il suo titolare?);
– il “diritto a morire” rifiutando i trattamenti sanitari (recentemente introdotto da L. n. 219/2017) sarebbe “diritto al suicidio” (laddove, regolando la morte da altri indotta, eutanasia, nulla ha che vedere con la morte da sé indotta, suicidio).
Ritenuto quindi, si diceva, il “diritto al suicidio” (adduce la Corte, anche in forza della inversione storica della base culturale della disposizione “fascista” che apertamente lo disconosceva) quale parte del “diritto vivente”.
Ritenuto inoltre che, vietato a chiunque di “istigare” al suicidio o di “rafforzarne il proposito”, ne è vietato l’ “aiuto” che fosse anche istigazione o rafforzamento, non quello che non lo fosse. In altre parole, è reso l’aiuto istigazione (o rafforzamento), malgrado, essi, nell’art. 580 cit., siano alternativi, siano posti cioè a dilatare l’area del divieto, non a contrarla (laddove la Corte la contrae fino ad espellerne ogni forma di aiuto che non fosse istigazione o rafforzamento….).
Ritenuto infine che, la contrazione, non sia conseguibile in via di interpretazione dell’art 580 cit. ed esiga l’intervento della Corte Costituzionale (che la intrida di “diritto al suicidio”, “diritto alla vita”, “diritto a morire” e via dicendo….; la Corte, peraltro, non distingue minimamente tra volenti suicidio necessitato, quello di “DJ Fabo” – che potrebbero ricevere eutanasia per legge 219 cit.- e volenti suicidio “discrezionale” – che egoisticamente potrebbero disperdere un bene sociale, contro il dovere di solidarietà sociale in art 2 Cost.-):
Le rimette la questione (la Corte di Assise) aggiunge anche un altro profilo di incostituzionalità, la parità delle pene della istigazione e dell’aiuto, senza avvedersi della inconciliabilità dei due profili, giacché il primo punta ad escludere, il secondo ad includere, l’aiuto “non istigatorio né rafforzativo”.
La Corte costituzionale, udite le ragioni della parti (fra queste il Governo, rappresentato in giudizio dalla Avvocatura dello Stato, contrario alle eccezioni sollevate), sospende la decisione e la rinvia ad una udienza di settembre 2019, invitando (tacitamente) il Parlamento a, frattanto, deliberare in materia.
3. Ora, se la Corte avesse ritenuto di non potere decidere, perché spettante al Parlamento rendere l’aiuto istigazione o rafforzamento, contro la loro alternatività in art 580 cp; come pure espellere dall’art 580 cit., ogni altra forma di aiuto:
avrebbe dovuto dirlo immediatamente (come da prassi) e spogliarsi del giudizio (senza oziare fino a settembre venturo, che la ritroverebbe nella medesima condizione).
Mentre, se avesse ritenuto di potere decidere, avrebbe dovuto farlo:
accogliendo una delle due eccezioni sollevate dalla Corte di Assise e dichiarando la illegittimità dell’art. 580 “nella parte in cui….e in cui…” (come da prassi).
O rigettandole perché infondate.
Oppure rigettando “nei sensi di cui in motivazione” (cioè dando la interpretazione costituzionale dell’art 580 cit., eventualmente accreditando quella della Corte di Assise…).
Dunque, perché ha sospeso il giudizio con “rinvio a data fissa” (su ciò qualcuno ha obbiettato che mai si era visto che la Corte mettesse in mora decisoria il Parlamento; che essa ha esorbitato dalle sue attribuzioni; che sarebbe sollevabile conflitto di attribuzioni fra poteri dello stato. Conflitto che tuttavia, assurdamente, la Corte stessa dovrebbe risolvere…)?
Qualcuno dei suoi membri – ovviamente non della quota, un terzo, eletta dalla magistratura, perché matrice della sopra vista ottenebrazione su “diritto al suicidio” & C. (qui esplode il paradosso, per cui, il giudizio sulla legittimità costituzionale del “diritto vivente” lo emetterebbe chi gli ha dato vita….) – ha temuto di mortificarla pubblicamente e ha premuto il pedale del freno? Ad un tempo lasciando che sia un legislatore profano e incolto (l’attuale) a mettere in scena la bruttura?
E’ probabile.
Ma potrebbe essere stato, anche, turbato, oltre che dall’entità della complicazione (interpretativa) del semplice, dalla perversione delle sue conseguenze.
4. L’art 580 cit. punisce “istigazione e aiuto al suicidio”, ma non punisce il suicidio (pur potendo: tempo addietro, la punizione del corpo del suicida, mediante sfregio o simile, era sancita).
Per ciò, se il suicidio non è vietato (penalmente e civilmente e negli altri rami del diritto nazionale), è libero. E’ cioè nel potere di fatto, di chi lo volesse. E ciò è altro che essere nel suo diritto, altro dall’essere un suo diritto (come la elementare teoria relativa da tempo insegna).
Per di più, se lo fosse, le posizioni degli altri rispetto ad esso non sarebbero libere (simmetricamente a quel potere di fatto) ma vincolate. Se lo fosse, gli altri sarebbero obbligati a rispettarlo, nessuno potrebbe, né dovrebbe (art 40.2 cp), impedirne l’esercizio. E ove ciò fosse, (forse anche ) l’istigatore al suicidio, (certo) il rafforzatore del relativo proposito, e comunque l’agevolatore o ausiliatore del suicidio, cooperando all’esercizio di un diritto, sarebbero punibili tanto quanto il suo titolare (come si è visto non punito).
Per cui, la presupposizione, alla eccezione di illegittimità costituzionale, del “diritto al suicidio”, condurrebbe logicamente alla illegittimità costituzionale dell’intero art 580 cit….
Certo contro la volontà dell’eccepiente.
Inoltre, volendo, la Corte di Assise, tutelare (suicidiofili) aiutanti al suicidio, doveva andare fino alla Corte costituzionale per farle dire l’indicibile (che l’aiuto al suicidio dell’art 580 ct., è istigazione..), quando, distinguendo fra aiuto che non entra, nella fase della esecuzione del suicidio (come quello di Cappato, che ha condotto “DJFabo” al Suicidiario svizzero, ma non è andato oltre..), e aiuto che vi entra (come quello di chi avesse consegnato a “DJFabo” il farmaco letale per la assunzione), avrebbe potuto escludere che il primo fosse causa del suicidio (e quindi che fosse punibile)?
Di fatti, per la teoria causale generale, la causa esprime morfologicamente l’effetto, ne determina la forma concreta e la preassume (essa consegna per la assunzione il farmaco letale). Se non lo fa, se è prodromo che ponga esclusivamente l’antecedente del sorgere e dell’accadere dell’effetto, è condizione. Ove lo fosse, anche la lettura scientifica degli artt 40, 41 del codice penale, esclude che, essa, sia causa.
D’altronde, se così non fosse, ogni condizione, delle innumerevoli antecedenti ogni causa, sarebbe causa, con indebita sottrazione (morfologica) di questa al “principio di previa determinazione” (naturalistica e giuridica).
5. E’quindi probabile che la visione di ciò abbia turbato il frenatore della Corte costituzionale, comunque rasserenato dalla constatazione che “il diritto vivente”, di origine tutta magistratuale, per quanto abbia mirato (eversivamente) a sostituire “il diritto vigente”, non se la passa bene.