Il Riformista 29 maggio ’20 riporta:
Il ‘manifesto’ del magistrato
La giustizia secondo Davigo: “L’errore italiano è dire
aspettiamo le sentenze”
“L’errore italiano è stato quello di dire sempre:
“Aspettiamo le sentenze”. Se invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo
uscire con la mia argenteria nelle tasche, non devo aspettare la sentenza della
Cassazione per non invitarlo di nuovo”. Sono le parole del magistrato
Piercamillo Davigo, ospite giovedì sera della trasmissione di La7 Piazzapulita,
che hanno alzato un vero e proprio polverone.
Il membro del Csm conferma così la sua nota visione della
giustizia. Per ribadire il concetto Davigo, che si è confrontato con Gian
Domenico Caiazza, il presidente dell’Unione delle Camere penali, ha fatto due
esempi. “Se io invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia
argenteria nelle tasche, per invitarlo a cena non sono costretto ad aspettare
la sentenza della Cassazione. Smetto subito di invitarlo a cena”, ha detto il
magistrato.
Ma non solo. Davigo fa un secondo esempio ancor più
grave: “Se il mio vicino di casa è stato condannato solo in primo grado per
pedofilia, io in omaggio della presunzione di innocenza gli affido mia figlia
di sei anni affinché l’accompagni a scuola? No, perché la giustizia è una virtù
cardinale, ma anche la prudenza è una virtù cardinale. Il punto è: se
l’opinione pubblica e soprattutto la politica decidesse autonomamente, non ci sarebbe
tutta questa tensione sulla magistratura”.
1. Quest’ultima, ma non nuova effusione verbale
dell’”informatore” penale che poco
informati conduttori televisivi continuano a rifilare al popolo – Floris
“Di Martedi”, Formigli di giovedì (“Piazza Pulita”)-, conferma che il
suddetto, sebbene consigliere togato del csm e fino a ieri presidente della
seconda ( seconda!) sezione penale della corte di Cassazione, a malgrado quindi
di un pluriennale contatto col diritto, non ha conseguito la capacità, o ha
represso o gettato la volontà, di distinguere tra l’esperienza domestica, sua e
dei suoi simili, del reo flagrante o destinatario di prima condanna, e
l’esperienza giudiziaria d’essi.
Incapacità o nolontà di distinguere che, se nella prima
esperienza è (giuridicamente) permesso supporre reo il soggetto, nella seconda,
all’opposto, è vietato.
Lo è, in questa, per obbligare l’accusatore a dare la
prova della reità, così da liberare l’accusato dalla prova del contrario ( a
meno che quella sia stata data).
E ciò a sostegno di un “minimo etico”, tra chi
sia (istituzionalmente) dotato del potere di accusare di reità, cioè di quanto
potrebbe scomunicare (estromettere dalla comunione sociale) e relegare il reo,
e chi non possa che sottostargli.
Al quale perciò, compensativamente (equitativamente), è
dato il diritto (assoluto, perché di Ordine Pubblico) che ne sia provata la
ragione – ed invero, anche il diritto a non essere relegato prima che quella
sia definitivamente provata, almeno secondo la Costituzione in art 27, norma
superiore pur se oltraggiata da (ab)norme inferiori.
Il tutto sotto principii e regole metodologici, di
ricognizione e di cognizione del fatto a giudizio e della sua relazione
all’accusato, ineludibili a pena di fallimento epistemico (che cerca e pone le
condizioni del vero) del processo (veridico e veritativo) , che nulla hanno a
che vedere – perché elevati dalla pubblicità degli interessi che curano- con le
regole empiriche, domestiche, di ricognizione e di cognizione delle reità,
delle quali si avvale, e che teorizza e propaganda, il suddetto.
Il quale comunque, sia che non abbia acquisito la capacità,
sia che abbia represso o gettato la volontà, di distinguere le due esperienze,
è indirizzato non solo a dissolvere la consistenza giuridica (e costituzionale)
della seconda (presuntiva della non colpevolezza dell’accusato fino a condanna
definitiva), a ridurla a consistenza empirica che il potere accusatorio e
(condannatorio) più agevolmente gestisca, ma anche a strozzarne la funzione
sociale educativa, dell’esperienza domestica, a dubitare delle flagranze delle
sue reità, perché nella realtà, immancabilmente, l’inapparente è infinitamente
più esteso dell’apparente.
2. Ma se questo è il suo stato, se non distingue tra
esperienza privata ed esperienza giudiziaria, se perciò non distingue né il
soggetto esperiente né l’oggetto esperito, egli non giusdice, non percepisce né
dichiara il diritto, è improduttivo di giurisdizione.
Non è giudice.
Sebbene lo rivendichi (sempre da Formigli: “ sono stato
più giudice che pubblico ministero”).
Forse nel tempo e nella forma, non nella sostanza.
Anzitutto perché ideazione e visione, sue, sono
immutabilmente accusatorie e condannatorie.
E tali non possono essere, ontodeontologicamente (che
attiene a ciò che è e a ciò che deve essere), funzionalmente, quelle del
giudice, il quale dovendo dichiarare tutto il diritto, anche quello difensivo e
assolutorio, non può che collocarsi al di sopra delle sue opposte istanze, per
poterne accertare e dichiarare le condizioni delle une e delle altre. E,
perciò, il suo eloquio extraprocessuale (eventualmente mediatico) non può
calcare né le une né le altre, affinché gli sia possibile processualmente
calcare o le une o le altre.
Poi perchè, manifestamente, ideazione e visione, nel
predetto, non sono atti solo mentali ma anche sentimentali (affettivi,
passionali), lo pervadono lo invadono e lo muovono.
Con immancabile rientro biologico che mai avrebbe potuto
permettergli di esser giudice senz’esser pubblico ministero.
3. Cio’ che peraltro mostra naturalisticamente, e
teorizza, l’impossibilità di fare di un pubblico ministero un giudice,
l’illusorietà (e la falsificazione della possibilità) di avere questo separando
la funzione da quello.
E mostra per conseguenza la necessità della
diversificazione culturale dei due (la cultura è parte fisica, modificabile ma
non eliminabile, della funzione dell’organo). Diversificazione che non potrebbe
neanche incamminarsi se non separando (anzitutto e almeno) “le
carriere” dei due.
A riprova, il suddetto pare talmente assuefatto alla
inversione della presunzione di incolpevolezza nel suo contrario ( che è la
negazione della giurisdizione processuale penale), da esordire da Formigli
dicendo:
“L’errore italiano è dire aspettiamo le sentenze”.
Cioè, senza nemmeno avvertire, e dichiarare, che il
diritto penale italiano è tra quelli, non solo in Europa ma nel mondo, che meno
“ aspetta( no) le sentenze”, per far seguire al mino accenno di accusa
scomunicazione e relegazione dell’accusato. Per di più con la squallida
ipocrisia di appellarla “custodia cautelare”.
pietro diaz