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La “associazione di tipo mafioso” nelle Corti italiane

Inviato da Pietro Diaz   
mercoledì 24 settembre 2014
Si propone il seguente ricorso per cassazione avverso una nota sentenza di una Corte cagliaritana (nell’occasione presieduta da un siciliano), quale riflessione critica, nella prima parte, sulla indifferenza, delle Corti italiane, alla “imputazione” quale oggetto intangibile della loro cognizione e decisione, eppure deformato o sformato o frantumato, a stura di un finalismo (subculturale e criminologico) accusatorio e incolpatorio, “pregiudicante”, e per ciò: demolitore del ruolo (congenito) del diritto (processuale e sostanziale) e dei suoi istituti (tra i quali, appunto, l’imputazione), di argine (modale e contenutistico, subbiettivo ed obbiettivo, attivo e passivo) dei poteri e dei doveri giuridici della comunità generale e particolare (quella immediatamente avente che fare con esso); devastatore, ad un tempo, del campo storico dello “Stato di diritto” (per ridare adito allo “Stato di polizia”); postulatore di contatto diretto (tramite l’organismo, di “polmagistratura”, che lo nutre), non mediato dal diritto (se non lo pseudodiritto “giurisprudenziale”), col “fatto” “penale” che trascelga, per il suo trattamento (non “giurisdizionale, dunque, bensì “amministrativo”, “di polizia…”. Nella seconda parte, (il ricorso quale riflessione critica) sulla indifferenza, completa (la sentenza sarà riportata testualmente e commentata via via), delle Corti, oltre che alla legge codificata, al metodo giuridico della sua interpretazione, alla teoria dottrinale basata su questa, al linguaggio proprio al discorso scientifico, in una parola, al “minimo giuridico” che identifichi la (moderna) “giurisdizione” (la ricognizione e la dichiarazione del diritto vigente)… prima parte “la configurabilità del reato di cui all’art. 416 bis nella condotta degli imputati” Una sentenza che assuma solennemente in tanta epigrafe la responsabilità politica e culturale, prima che giuridica, addirittura storica, di impartire a sub culture di Sardegna mai vista e udita o immaginata forma di mafia, con azzardo sociologico e antropologico peraltro silente le sue ragioni perché del tutto ignaro della realtà sottesa (non una parola di e su questa, in fatti), benché essa sia il supporto naturalistico della fattispecie di associazione ex art. 416 bis c.p., fattispecie “aperta” come poche ( e quando si consideri che Cosa Nostra è ignota all’Isola fino al “nuragico”, che essa, non lieve in anni, fu la madre culturale di tutte le mafie italiche, che le associazioni mafiose comunque localmente denominate, quelle oggi aventi titolo e sorte giuridici e giudiziari, ne sono filiazione, si apprenderebbe bene che il suo substrato culturale, non un altro, è definibile finanche “elemento costitutivo “ di fattispecie); una sentenza che assuma la responsabilità politica e culturale, prima che giuridica, di imporre all’Isola un “precedente”, fatalmente destinato a proliferare per “partenogenesi” (la “legge” dello stigma che genera stigma giudiziario e sociale), la responsabilità storica di marchiarla a vita, avrebbe dovuto chiederne permesso alla imputazione, fonte e criterio e campo di tutti i suoi termini e giudizi e decisioni (quando la sentenza non si connetta alla imputazione reale, l’architrave del processo si rompe, e tutto rovina disastrosamente, anche sulla umanità coinvolta) e averlo. Ebbene la imputazione glielo avrebbe negato: 1. Nel capo AI, (promozione) costituzione direzione organizzazione della “associazione per delinquere di stampo mafioso..”, condotte (ed eventi inerenti) , cioè, esigenti (naturalisticamente e) giuridicamente (almeno) tre persone, si compiono ed avvengono tra due persone (Pis, Pir)! 1.1 d’altronde sarebbero condotte ed eventi (generativi e formativi) di “associazione a delinquere di stampo mafioso”, estranea al lessico della norma che riferirebbe nella denotazione che ne fanno i due attributi, separati o insieme (a delinquere… di stampo…), e che esprime “associazione di tipo mafioso”; 1.1.1. tanto che, nella norma, la associazione non è (sempre) a delinquere, stampo e tipo non sono sinonimi, giacchè il primo è modello cui si riconduca alcunchè, il secondo e mezzo della ricognizione e descrizione della realtà interessante (la norma incriminatrice), in questo caso mezzo (tipo) normativo extragiuridico assunto funzionalmente da quello giuridico, e come tale appositamente usato dalla norma propensa anche alla estensione analogica ( della ricognizione); 1.1.2 dunque è sostantivo infungibile semiologicamente e giuridicamente, inassimilabile a qualunque altro: per ciò può dirsi che l’oggetto della imputazione al capo indicato non è la associazione di tipo mafioso, o simile “comunque localmente denominat(o)”; 1.2 peraltro, fosse ravvisata, in quella imputazione, la associazione in questione, poiché le condotte (e gli inerenti) eventi) di organizzazione e di direzione inerirebbero una associazione costituita (anche, e differentemente da altre) dall’elemento della “forza intimidatrice… (onde la condotta di costituzione, della associazione, nella interazione ovviamente con le altre fattispecie, per quanto, già osservato, ha a subevento la acquisizione di esso, che contemporaneamente diviene presupposto delle condotte di organizzazione e di direzione); 1.2.1 poiché all’opposto, nella imputazione, quel subevento verrebbe generato mediante “programmazione e (l’)esecuzione di vari delitti, prevalentemente minacce e danneggiamenti intimidatori…”, dall’associazione che, perseguendo gli scopi, non potrebbe che essere già costituita organizzata diretta, manca, in essa, uno (sub)evento costitutivo, e la possibilità stessa di raffigurare il perseguimento di scopi tipici che non potrebbe, quell’evento, non condizionare e connotare: la (ipotetica) pluralità soggettiva associata non sarebbe certo associazione di tipo mafioso; 1.3 perseguimento, di scopi, oltre tutto, tipologicamente tenuto a “profitta(re) della condizione di assoggettamento e di omertà che ne era derivata…” e che al contrario, non essendo data la “forza intimidatrice…, e dato l’avval(imento)”di essa, non potrebbero essere date le (susseguenti)condizioni dell’assoggettamento e della omertà; 1.4 perseguimento, peraltro, avente ad oggetto”ingiusti vantaggi socioeconomici che sarebbero seguiti alla gestione del Comune di Barisardo”, per ciò vantaggi supponenti tale gestione, scopo dunque della attività “sociale”, la assunzione politico elettorale del potere comunale, tuttavia certamente estranea alla tipologia di fattispecie, al quadro sociologico da essa immaginato: che la “associazione di tipo mafioso”, comunque localmente denominata, è un organismo subsociale e subculturale, rispetto a quello sociale e culturale (nella sfera politicoistituzionale al vertice), immancabilmente altro da quello (a malgrado della possibilità dl contatto e perfino della “infiltrazione”); 1.4.1 e di fatti l’imputazione prosegue: “gestione che intendevano ottenere (dopo le procurate dimissioni del sindaco in carica), con la violenta estromissione dalle competizioni elettorali…di formazioni politiche contrapposte a quelle capeggiate dalla Piroddi, così impedendo o comunque ostacolando il libero esercizio del voto….; 1.4.2 espone dunque, essa, una accolta di persone tesa alla competizione elettorale ed alla presa del potere politico in forma “non democratica” (potrebbe sintetizzarsi), cioè non attuata (esclusivamente) con tecniche di sistema elettorale, verso la formazione di maggioranze, del tutto incorrispondente a quella della fattispecie; 1.5 davanti la quale, in altre parole, mirare con qualsiasi mezzo anche illecito ed anche violento alla acquisizione del potere politico istituzionale in forma (ovviamente) associata è giuridicamente irrilevante; 1.6 si intravede, nella logica della imputazione, che i delitti attuanti lo scopo della associazione attuerebbero contemporaneamente questa, che l’effetto accompagna la causa, come si intravede che i “delitti scopo”, o gli scopi, realizzerebbero a loro volta scopi ulteriori, che verrebbero dalla associazione solo mediatamente, i quali soltanto corrisponderebbero quelli tipici e incriminanti (se immediati); 1.7 dunque il (primo nella fattispecie) nucleo della associazione, quello “ primario” dato dalle condotte genetiche, costitutive, motorie (organizzazione e direzione) è affatto incorrispondente, nella imputazione, a quello tipico ( per le ragioni indicate: numero delle persone subeventi rapporti alle condotte di fase etc), 1.7.1 per ciò la sentenza avrebbe dovuto dichiararlo insussistente, rispetto a quello tipico (art. 606 co. 1 e), b) c.p.p.); 1.8 e ben prima di sostituirlo, con quello tipico, traendolo dalle sue premesse teoriche (infra esposte), allestite in motivazione per dissimulare lo scambio, come se avessero elaborato il fatto secondo la imputazione, elaborandolo in vece contro, o al posto di, essa (art. 606 co. 1 e) c.p.p.); 1.8.1 sostituzione trasgressiva, peraltro, di elementari divieti, essendo permessa soltanto in “grado” (il primo o l’udienza preliminare quando sia) e in modo (artt. 516 ss, o 521 co. 2 c.p.p.) ben differenti (art. 606 co. 1 c) c.p.p.); 1.9 peraltro, se mai la sentenza avesse ravvisato la sussistenza del fatto e la sua corrispondenza a quello tipico, da un lato avrebbe visto con illogicità manifesta (art. 606 co. 1 e) c.p.p.) da altro avrebbe falsamento applicato la legge penale, il cui tipo di fatto è nettamente altro da quello imputato; 2. nel Capo B/1 Pug S e altri sono imputati di avere “fatto parte …dell’associazione di cui al Capo A/1”! 2.1 cioè, di  una associazione inesistente per le ragioni sub 1, non partecipabile tipicamente ex art. 416 bis co.1 c.p.; 2.2 “fatto parte”, essi, secondo imputazione, senza avvalersi, partecipando o agendo in perseguimento degli scopi,  della “forza di intimidazione…e delle condizioni di assoggettamento e di omertà…; atipicamente dunque; 2.2.1 bensì “concorrendo… alla consumazione di vari reati ivi ( Capo A/1) richiamati, al fine di consentire …l’estromissione dalle competizioni elettorali…di formazioni politiche contrapposte…; e  con ciò “intimidendo gli oppositori…” (ove, evidentemente, l’elemento della “forza intimidatrice…” sarebbe in fieri semmai fosse  in germe, e comunque, nascendo da reati scopo, precederebbero non seguirebbero una associazione;  2.2.2. avrebbero, essi, “partecipato”,  cioè,  commettendo i reati scopo,  laddove si partecipa ad associazione tipicamente anzitutto associandosi  ad essa, e poi, semmai commettendone reati scopo (per giunta inessenziali alla associazione de qua) dovendo questi  soggettivamente calarsi nel finalismo di quelli tipici perchè possano eventualmente associare l’autore;   2.2.3 onde supporre, nella imputazione,  la partecipazione ad “associazione mafiosa”, invece che la insussistenza di essa, è manifestamente illogico (art. 606 co. 1 e) c.p.p.), oppure modifica  il fatto (art. 606 co. 1 c) c.p.p.: vd sub 1.8.1 ) oppure compie falsa applicazione della legge penale (art. 606 co. 1 b) c.p.p.); 3. d’altronde, nel Capo L della imputazione a (parte de) i predetti, i delitti di fabbricazione detenzione porto di “ordigno esplosivo” col quale sarebbe stato compiuto quello  di danneggiamento “ intimidatorio” (palesemente dunque l’elemento della “forza intimidatrice” nascerebbe dai reati scopo), non hanno  alcun rapporto con la associazione (o la sua fattispecie aggravante essa in art. 416 bis co. 4 e co. 5 c.p.); 3.1 ciò che riconferma i vizi appena denunciati della sentenza (art. 606 co. 1 …c.p.p.);  4. d’altronde nel Capo L 1, della imputazione a (parte de) i predetti, il delitto di detenzione e porto di fucile “a scopo di danneggiamento intimidatorio” (compiuto) impone considerazioni ed eccezioni di vizi  identici ai precedenti; 5. d’altronde nel Capo M della imputazione a (parte de) i predetti,  i  delitti di fabbricazione detenzione porto di ..ordigno esplosivo … “ a scopo di danneggiamento “intimidatorio…” (compiuto) impongono considerazioni ed eccezioni di vizi della sentenza identici ai precedenti; 6. d’altronde nel Capo N della imputazione a (parte de) i predetti i delitti di fabbricazione detenzione porto di ordigno esplosivo “a scopo di danneggiamento intimidatorio” (compiuto) impongono considerazioni ed eccezioni di vizi  identici ai precedenti (con l’ulteriore considerazione che i “promotori costitutori organizzatori, direttori” della associazione, Pischedda e Piroddi, sarebbero  concorrenti ex art. 110 nei delitti indicati a  pari titolo,  talmente  da escludere ogni segno della loro posizione “sociale”, e, malgrado il concorso, ogni segno della associazione, mancando perfino il riferimento ai  suoi scopi; 7. d’altronde nel  Capo O della imputazione  a (parte de) i predetti i delitti di detenzione e di porto di armi da fuoco…”a scopo di danneggiamento intimidatorio” (compiuto) impongono considerazioni ed eccezioni di vizi identici ai precedenti,  8. d’altronde nel Capo R2 della imputazione a (parte de) i predetti,  i delitti  di fabbricazione detenzione  porto di ordigno esplosivo…a scopo di danneggiamento intimidatorio impongono considerazioni ed eccezioni di vizi  identici ai precedenti; 9. d’altronde nel Capo RR della imputazione a (parte de) i predetti, l delitti di fabbricazione detenzione porto di…ordigno esplosivo…a scopo di danneggiamento intimidatorio impongono considerazioni  ed eccezioni di vizi identici ai precedenti; 10. d’altronde nel Capo X della imputazione, ad Arra Carlo, il delitto di detenzione di armi esplosivi  munizioni,  in “deposito” nel processo per “associazione,  è ascritto esclusivamente a lui, senza concorso con alcuno, con alcuno dei predetti imputati,  quindi, non  partecipi di “associazione armata!” (art. 416 bis co. 4 e co. 5 c.p.);  11. d’altronde nel Capo X2 della imputazione, a Locci Gian Paolo, il delitto, simile al predetto, è ascritto  esclusivamente  a lui, senza concorso con alcuno, con alcuno dei predetti imputati, nemmeno con Arra, quindi, non partecipi di “associazione armata”;  12.  d’altronde nel Capo Y della imputazione a (parte de) i predetti, i delitti di fabbricazione detenzione porto di …ordigno esplosivo…a scopo di danneggiamento intimidatorio…impongono considerazioni ed eccezioni su vizi e della sentenza identici ai precedenti sub 9 retro; 13. d’altronde nel Capo A della imputazione  a (parte de) i predetti,  i delitti di detenzione e porto in luoghi pubblici di arma da fuoco … a scopo di danneggiamento intimidatorio. impongono considerazioni ed eccezioni di vizi identici ai precedenti sub 9 et retro; 13.1 e se è vero che quei delitti, in questo Capo, sopraggiunto a dibattimento, sarebbero “aggravat(i) ai sensi dell’art. 7 L. 203/91 in quanto commess(i) avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. e comunque al fine di favorire l’associazione per delinquere di stampo mafioso promossa costituita diretta ed organizzata dal Pischedda e da Piroddi Maria Ausilia; associazione che valendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo reso palese mediante la programmazione e l’esecuzione di vari delitti…perseguiva, profittando delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne era derivata, lo scopo di…, 13.2 ( se ciò è vero) mentre è palesemente frutto di tentativo di fare in extremis un richiamo alla mafiosità del fatto, come mostra il paradosso che un delitto di danneggiamento mediante esplosione di undici colpi contro la parete esterna degli uffici di uno Studio….abbia bisogno, per compiersi, oltre che dell’arma e delle munizioni, anche dell’avvalimento cennato, di persone peraltro invisibili mentre agiscono e dunque irriconducibili a nient’altro che ad anonimi; 13.3 avvalendosi di tale forza (recita l’imputazione dell’ultim’ora) o, alternativamente, “al fine di favorire l’associazione per delinquere di stampo mafioso…”, 13.3.1 con ciò scindendo i predetti, che pure sarebbero partecipi della associazione, da questa, in quanto agenti per favorirla non in quanto partecipi (dunque attuanti condotta, dell’estraneo, di favoreggiamento della associazione: arg. ex art. 379, 418 c.p.); 14. d’altronde nel Capo B della imputazione a (parte de) i predetti, sopraggiunto anch’esso a dibattimento, i delitti di detenzione e porto di arma da fuoco e di tentativo di omicidio impongono considerazioni ed eccezioni su vizi identici ai precedenti sub 9 et retro; 15. d’altronde nel Capo C della imputazione a (parte de) i predetti, i delitti di detenzione e porto di arma da fuoco …a scopo di danneggiamento intimidatorio…impongono considerazioni ed eccezioni su vizi identici ai precedenti sub 9 retro; 15.1 mentre, se è vero che quel delitto, in questo Capo di Imputazione, sarebbe aggravato ai sensi dell’art. 7 L. 575/’65, varrebbero le osservazioni svolte sub 13 ss; 16. dunque tutti gli elementi della imputazione escludevano nucleo primario (promozione….) e nucleo secondario (partecipazione); 16.1 quando l’esclusione non fosse stata assoluta (sub 13 ss, 15 ss), esplicita, sarebbe stata implicità (locc. ora citt.), per incoerenza alla retta logica della inclusione; 16.2 la sentenza che la abbia rigettata, affermando la associazione, mentre avrebbe agito illogicamente (non cogliendo l’esclusione) e/o avrebbe agito “illegalmente” (erroneamente interpretando e applicando la legge penale in questione), ovvero avrebbe sostituito indebitamente il contenuto della imputazione con quello della sua premessa giuridica (infra D ); 16.3 in tutti questi casi trasgredendo ex art. 606. co. 1 e), b), c) (artt. 516 ss) c.p.p.; 16.5 trasgredendo ancora ex art. 606 co. 1 e) c.p.p., allorché pone in conflitto la sua premessa giuridica sul fatto tipico di associazione (infra sub D) col fatto di associazione espresso in imputazione; seconda parte D Ma che cosa, della premessa giuridica della sentenza, solennemente epigrafata ut sub B, ha permesso il travisamento fattuale e giuridico della imputazione, come risultante sub C, in materia di “associazione”:   1. Giova, invero, ricordare che il precetto dell’art. 416 bis c.p. descrive l’associazione di tipo mafioso con una definizione i cui contorni, benché in gran parte mutuati dalla nozione generalmente recepita dalla giurisprudenza precedente in tema di associazione per delinquere “semplice” (cfr., ex plurimis, 16 dicembre 1971, Di Maio; peraltro, una nozione di associazione “mafiosa” già risultava, in termini analoghi, dalla giurisprudenza in tema di misure di prevenzione), designano l’associazione mafiosa come figura di reato dotata di connotati di assoluta autonomia in quanto strettamente ricollegati alla specifica tipologìa del vincolo associativo, alle modalitàdell’azione dei componenti il sodalizio, ai fini “istituzionali” perseguiti dall’associazionismo mafioso ed ai suoi membri.   1.1 locuzione ‘associazione per delinquere “semplice”’, invero, dall’aggettivo irreperibile nella fattispecie legale relativa, è usata per dare comparativamente una misura criminologica, oppure, per definire il carattere della fattispecie rispetto ad altra, “circostanziata” o ad altra “complessa (secondo le attese della comunità linguistica dell’ambito)? E se così, in una di queste la sentenza tenderebbe a collocare quella di “associazione di tipo mafioso”, che, peraltro, non sempre sarebbe “ per delinquere” laddove la “semplice” lo è sempre? 1.2 quando un aggettivo “interpretativo” apra tanti interrogativi, e non li chiuda, il linguaggio è inammissibilmente ambiguo, persistendo, porta a inosservanze ed erronee applicazioni della legge penale penale, che già (pre)compie ( art. 606 co. 1 b) c.p.p. );   2. Sin dalle prime pronunce il Supremo Collegio ha sottolineato tale autonomia, rilevando che le associazioni di tipo mafioso e le altre associazioni comunque localmente denominate sonofigure radicalmente distinte rispetto all’ordinaria associazione per delinquere. È chiaro allora come l’elemento maggiormente designante la fattispecie prevista dall’art. 416 bis c.p. è stato subito individuato nella forza intimidatrice del vincolo associativo utilizzata dai componenti il sodalizio (Sez. I, 9 giugno 1983, De Maio; Sez. I, 30 gennaio 1985, Scarabaggio). Essa, infatti, rappresenta l'”in sé” dell’associazione di tipo mafioso, il dato che più discrimina quella prevista dall’art. 416 bisdalle altre associazioni criminali.   2.1 Se la parola “sodalizio” sostituisce quella di associazione, il rischio di sviamento interpretativo, con travisamento della imputazione, è già realizzato: la “associazione” è associazione non concorso di persone (art. 110 cp) non accordo (art. 304 cp) non banda (art. 307 cp) non “gruppo” (art. 609 0cties cp) non riunione o assembramento (art. 18 ss tulps) né altro…, delle plurisoggettività attive giuridico penali ( tutte bene differenziate e differenzianti nel lessico relativo, che la interpretazione ha il dovere assoluto di rispettare, avendo ad oggetto parole giuridiche: se potesse sostituirle, non solo il soggetto si farebbe oggetto e viceversa, ma il sistema linguisticamente predeterminato e tassativo della legalità penale andrebbe in pezzi, con regresso all’autismo pregiuridico); tanto meno l’associazione è “sodalizio” (di rango e senso lessicali incerti, peraltro); se potesse designare comunemente la plurisoggettività della imputazione, non potrebbe connotarla come associazione ( art. 606 co. 1 b) c.p.p.);   3. Sul piano della ricostruzione del reato, la “forza intimidatrice del vincolo associativo” trascende la stessa tipicità della condotta associativa di cui non costituisce una modalità di manifestazione, venendo, invece, definita quale elemento strumentale, come sottolineato dal verbo “si avvalgono” (Sez. I, 6 aprile 1987, Aruta): un’espressione che allude al momento in cui l’associazione ha raggiunto quel minimo dì capacità intimidatoria in grado di determinare le condizioni di assoggettamento e di omertà.   3.1 Tuttavia, se la forza intimidatrice fosse oltre la tipicità, come potrebbe essere un elemento del fatto penalmente rilevante, necessariamente tipico? E come, per la stessa ragione, potrebbe essere elemento “strumentale”, ben si intende, del fatto tipico. Peraltro, posta “la forza…” oltre la tipicità, per ciò questa può avvolgere, in sentenza, l’imputazione pur priva di quella (art. 606 co. 1 b) cpp);   4. Tutto ciò sta a significare che la condotta del partecipare ad un’associazione resta designata dal semplice “far parte” di un sodalizio che ha – di per sé – le predette caratteristiche, senza che possa assumere rilievo (se si eccettui, ovviamente, il ruolo dei capi, dei promotori e degli organizzatori) il quantum da  ciascuno dei partecipanti utilizzato al fine di fare acquistare all’associazione la forza intimidatrice.   4.1 richiamato quanto sopra sul “sodalizio”, quale insieme di persone più esteso, semiologicamente e naturalisticamente, e diversamente strutturato, della associazione, imposto che sia alla imputazione, la questione è : “fare parte” di un sodalizio equivale giuridicamente, tecnicamente, a fare parte di una associazione (art. 606.1 b) cpp)? Peraltro, che ruolo interpretativo, se non quello di travisatore della imputazione, ha il “quantum” del partecipante a “fare acquistare…”, quando la partecipazione postuli la previa costituzione della associazione, anche, in specie, mediante acquisizione originaria della “forza intimidatrice” (art. 606 co. 1 b) c.p.p.)?   5. Un dato che rappresenta, dunque, salvo che si sostanzi nella consumazione di ulteriori reati del tutto indifferente in relazione alle esigenze teleologiche considerate dall’art. 416 bis c.p.   5.1 A parte la inconcludenza della frase, avrebbe che fare con le “esigenze teleologiche dell’art. 416bis” (si noti dell’articolo non del fatto o del reato), un elemento, quello di “fare parte”, della fattispecie, oggettivo (art. 606 co. 1 b) c.p.p.)?   6. Pertanto, a qualificare o ad escludere la configurabilità di una associazione di tipo mafioso è essenziale, anzitutto, che questa si avvalga della pressione derivante dal vincolo associativo in se stesso (Sez. I, 21 ottobre 1986, Musacco), nel senso che è l’associazione, e solo l’associazione,  indipendente dal compimento di specifici atti di intimidazione, ad esprimere il metodo mafioso e lasua capacità di sopraffazione (Sez. I, 21 ottobre 1986,Musacco).   6.1 Con ciò, è disgregato l’elemento oggettivo suddetto, è ridotto, anche per contrazione linguistica della frase incidentale, al vincolo associativo, ed alla espressione da esso del “metodo mafioso” (di conio, anche questo, extralegale, forse gergale); e a malgrado delle postulazioni sub 2, ignare o ipocrite, della “autonomia” di questa associazione da ogni altra; la fattispecie è già pienamente riformata per le “esigenze teleologiche “ della repressione: così è attagliata alla imputazione (art. 606 co. 1 b) c.p.p.); così d’altronde contraddice precedente assunto, suscitando l’ipotesi, per ora prematura, che la premessa giuridica in questione, insieme incoerente di massime giurisprudenziali, sia stata tesa a dare apparenza di motivazione (art. 606 co. 1 e) c.p.p.);   7. Dunque, nella struttura del delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso, la forza di intimidazione del vincolo associativo, da cui deriva la situazione di assoggettamento e di omertà, rappresenta l’elemento strumentale tipico del quale gli associati siservono in vista degli scopi propri dell’associazione; con la conseguenza che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 416 bis c.p., è indispensabile che quell’elemento effettivamente sussista e che gli associati siano consapevoli della sua esistenza. Si richiede, cioè, che l’associazione abbia conseguito nell’ambiente circostante una effettiva capacità di intimidazione e che gli aderenti se ne siano avvalsi in modo effettivo al finedi realizzare il loro programma criminoso (Sez. VI, 6 dicembre 1994, Imerti). Ma, proprio perché la carica intimidatoria rappresenta l’in sé del fenomeno mafioso, è necessario – come già detto – che essa sia dotata di una ontologica autonomia, nel senso che, costituendo tale carica patrimonio dell’associazione, l’assoggettamento e l’omertà derivi da questa e non da altri fattori (Sez. VI, 31 gennaio 1996, Alleruzzo).   7.1 per quanto corretto, l’enunciato non rinuncia a innovare, oltre che nel lessico legale, anche in quello proprio: ora gli associati sarebbero “aderenti” (salvo errore indistinguibili dagli iscritti ad una bocciofila): la imputazione è più agevolmente travisabile in termini (art. 606 co. 1 b) c.p.p.);   8. Nei casi in cui la forza di intimidazione sia soltanto la risultante delle qualità soggettive di alcuni componenti il sodalizio, si potrà ipotizzare, in presenza dei requisiti richiesti dalla legge, una associazione per delinquere comune, ma non certo un’associazione per delinquere di tipo mafioso. Un’associazione può, infatti, considerarsi tale solo se abbia sviluppato intorno a sé una carica intimidatrice autonoma, ricollegabile, cioè, esclusivamente al nucleo associativo, creando nei confronti del gruppo un alone permanente di timore diffuso. 8.1 enunciato corretto, tuttavia inconciliabile ad altri precedenti (art. 606 co. 1 e) (illogicità giuridica della motivazione) c.p.p.); cresce l’ipotesi sub 6.1 della apparenza della motivazione (art. 606 co. 1 e) c.p.p.);   9. Sino a quando una consorteria, che pur persegua gli scopi previsti dall’art. 416 bis, non abbia raggiunto quella soglia minima che le consente di utilizzare la forza intimidatrice nel suo manifestarsi in sé, non sarà, dunque, ipotizzabile un’associazione di tipo mafioso. 9.1 ut sub 7.1: anche la “consorteria” al posto della associazione conferisce al travisamento in termini della imputazione (art.606 co. 1 b) c.p.p.);  10. In cosa consista, poi, l’avvalersi della forza intimidatrice è concetto che può essere espresso solo adottando una formula di genere, considerato il ruolo cruciale del “metodo mafioso” e la sua possibilità di esplicarsi nei modi più disparati, sia limitandosi a sfruttare  la  carica  intimidatoria  già conseguita dal sodalizio, sia ponendo in essere nuovi atti di violenza o diminaccia. Nel primo caso è evidente che il sodalizio è già pervenuto al superamento della soglia minima che consente di utilizzare la forza intimidatrice soltanto sulla basedel vincolo e del suo manifestarsi in quanto tale, all’esterno; nel secondo caso, è stato perspicuamente posto in luce dall’interpretazione giurisprudenziale come gliatti di violenza o di minaccia (forse, parrebbe più rigoroso parlare di “atti di intimidazione”, non soltanto perché non necessariamente la violenza e la minaccia esauriscono la categoria delle condotte di intimidazione ma anche, e soprattutto perché in tal modo diviene possibilefissare un discrimine concettualmente non irrilevante tra “forza di intimidazione” ed “attività di intimidazione”) non realizzano l’effetto di per sé soli, ma in quanto costituiscano espressione rafforzativa della precedente capacità intimidatrice già conseguita dal sodalizio (Sez. VI, 3 giugno 1993, De Tommasi). 10.1 enunciato in parte corretto, tuttavia disturbato dalla riduzione della associazione a “metodo mafioso”, e da  incompletezza: perché la intimidazione volta alla integrazione dell’elemento della “forza intimidatrice” della associazione potrebbe iscriversi nel tentativo di promozione o di costituzione della associazione, essendo, questi, eventi propri di quella condotta, di causazione ed integrazione della “forza intimidatrice”, o eventi insieme a questa della fase genetica della associazione, condotta, peraltro, attuabile sia in forma monosoggettiva che in forma plurisoggettiva; sfuggito ciò totalmente alla sentenza, essa può tipizzare ex art. 416 bis una imputazione che fa generare “la forza…” dai delitti scopo! (art. 606 co.1 e) c.p.p.);   11. Ulteriori elementi indispensabili per configurazione del delitto di associazione di stampo mafioso sono la condizione di assoggettamento e quella di omertà, entrambe come conseguenza della forza di intimidazione del vincolo associativo da cui derivano causalmente; se, infatti, l’assoggettamento e l’omertà dipendano da fattori diversi dalla forza intimidatrice del vincolo (ad esempio, da qualità soggettive di taluni componenti il sodalizio), può ritenersi, in presenza dei propri elementi costitutivi, la sussistenza di un’associazione per delinquere comune (Sez., 21 ottobre 1986, Musacco). Anche se tale definizione delinea, forse, una non troppo corretta individuazione dei rapporti tra l’avvalersi del vincolo associativo e della situazione di assoggettamento e di omertà, con l’art. 416 bis c.p., che si esaurisce nella previsione del far parte di una simile associazione, la giurisprudenza è costante nel ritenere che la norma in parola configura un delitto associativo a condotta multipla o mista, nel senso che, mentre perché si abbia associazione semplice è sufficiente la creazione di un’organizzazione stabile, sia pure rudimentale, diretta al compimento di una serie indeterminata di delitti, perché ci si trovi di fronte ad un’associazione mafiosa è altresì necessario che questa abbia conseguito nell’ambiente circostante una reale capacità di intimidazione e che gli aderenti si siano avvalsi in modo effettivo di tale forza al fine di realizzare il loro programma criminoso (Sez. VI, 6 dicembre 1994, Imerti) omertà che ne deriva (Sez. VI, 31 gennaio 1996, Alleruzzo). La giurisprudenza ha, perciò, particolarmente insistito sul “metodo mafioso” che contrassegna il reato di cui all’art. 416 bis, metodo seguito dai componenti dell’associazione per la realizzazione del programma associativo. È, forse, questa una delle più importanti messe a fuoco della condotta prevista dall’art. 416 bis Pur non essendo componente della condotta, ma dato di qualificazione del sodalizio, il metodo si connota, dal lato attivo, per l’utilizzazione da parte degli associati della carica intimidatrice nascente dal vincolo associativo e, dal lato passivo, per la situazione di assoggettamento e di omertà che da tale forza intimidatrice, quale effetto, si sprigiona per il singolo sia all’esterno dell’associazione sia al suo interno (Sez. I. 10 febbraio 1992, D’Alessandro; Sez. VI, 10 marzo 1995, Monaco). Si assiste, cioè, ad una separazione concettuale dell’attività dal metodo. La prima si incentra sul contributo prestato all’associazione; il secondo nell’utilizzazione del sodalizio in modo da creare assoggettamento e omertà. Non basta, dunque, l’uso della violenza o della minaccia, che può essere previsto come elemento costitutivo dei delitti programmati – altrimenti tutte le associazioni criminose aventi come programma tali delitti diverrebbero automaticamente di tipo mafioso – ma è necessario che la forza intimidatrice sia, non solo componente strutturale del programma criminoso, ma anche espressione dello stesso vincolo associativo e sia diretta a creare nel territorio condizioni di assoggettamento tali da rendere difficile l’intervento preventivo o repressivo dei poteri dello Stato e da creare una diffusa omertà (Sez. I, 1^ luglio 1987, Ingemi).   11.1 l’enunciato nel complesso sarebbe corretto, se non contraddicesse i, o non si discostasse dai, precedenti, sopra visti (art. 606 co. 1 e) c.p.p.), a parte, da un lato, che associazione per delinquere e associazione “mafiosa” non si differenziano per le condotte, singola nella prima plurima nella seconda, giacchè, se il moltiplicatore fosse l’elemento della “forza”, questo è presupposto della condotta, di avvalersi etc., non condotta esso stesso, semmai, essendo evento della condotta antecedente, la costituzione della associazione; e, a parte, dall’altro, che non è necessario ed anzi è sviante trasferire nel metodo, assieme alla fattispecie peraltro, quanto é insito nella condotta, che impieghi ed abbia a presupposto la “forza…”; con l’effetto sub 10.1 infine. (art 606 co. 1 b) c.p.p.); l’enunciato peraltro contraddice taluni precedenti, visti, consolidando l’ipotesi sub 6.1 (art. 606 co. 1 e) c.p.p.);    12. La capacità qualificatoria del metodo mafioso ha trovato ampie conferme giurisprudenziali, allorché si è osservato che la natura mafiosa di un’associazione non è determinata dagli scopi che essa si prefigge, bensì dal metodo impiegato, con il ricorso sistematico all’intimidazione e all’imposizione di un atteggiamento omertoso, tanto che è possibile rinvenire i connotati della mafiosità anche in associazioni criminali che si fronteggino in una faida familiare e che in tale contrapposizione concentrino quasi esclusivamente la propria attività (Sez. V, 21 ottobre1996, Bruzzìse). Od ancora, quando si è precisato che un’associazione può definirsi di tipo mafioso,distinguendosi dalla normale e tradizionale associazione per delinquere, quando sia connotata da quei particolari elementi indicati nell’art. 416 bis c.p., dei quali il principale ed imprescindibile è il metodo mafioso seguito per la realizzazione del programma criminoso; aggiungendosi che per la specifica connotazione “mafiosa” di un sodalizio vanno coordinati i vari elementi indiziar!, in una chiave di lettura che tenga conto delle nozioni socioantropologiche e del particolare ambiente culturale, geografico ed etnico in cui i fatti sono maturati (Sez. I, 10 dicembre 1997, Rasovic).   12.1 Se gli scopi non connotassero la mafiosità della associazione, essi sarebbero estranei alla fattispecie, mentre non solo le sono intranei,, ma sono assolutamente caratterizzanti la associazione (che abbia fini di impresa economica o di affare economico, non di reato, pertinenti invece alla associazione per delinquere, per cui la sentenza torna alle precedenti postulazioni, assenza della forza intimidatrice e di essa come presupposto delle condotte, assenza di scopi tipici, riduzione della fattispecie a metodo, al netto  dunque di forza intimidatrice e di condizioni  di assoggettamento e di omertà derivanti, addirittura,  esplicitamente, perviene, la sentenza, alla riduzione ad essa della faida familiare per il solo fatto dell’uso contingente della violenza; non potrebbe sussumere più agevolmente,  l’imputazione (art. 606 co. 1 b) c.p.p.);   13. Frequente è pure l’enunciazione del principio secondo cui la forza di intimidazione non deve necessariamente essere utilizzata dai singoli associati (né deve necessariamente estrinsecarsi, di volta in volta, in atti di violenza fisica o morale), per il raggiungimento dei fini previstidalla norma incriminatrice, perché ciò che caratterizza, sul piano descrittivo e su quello ontologico,l’associazione di tipo mafioso, secondo il modello legale, è la condizione di assoggettamento (che implica uno stato di soggezione, derivante dalla convinzione di essere esposti ad un concreto e ineludibile pericolo di fronte alla forza dell’associazione) e di omertà (che consiste in una forma dì solidarietà, che ostacola o rende più difficoltosa l’opera di prevenzione o di repressione, che dal vincolo associativo deriva per il singolo all’esterno, ma anche all’interno dell’associazione; cfr. Sez. I, 6 aprile 1987, Aruta; Sez. I, 13 giugno 1987, Altivalle; Sez. I, 25 febbraio 1991, Grassonelli): un principio che pare assumere una significativa valenza ermeneutica soltanto se inteso nel senso che lo stesso “far parte” dell’associazione e l’agire esterno del consociato indicano nell’assoggettamento e nell’omertà l’effetto della forza intimidatrice (Sez. VI, 31 gennaio 1996, Alleruzzo). 13.1 Attraverso il richiamo degli eventi dell’assoggettamento e della omertà l’enunciato recupera coerenza alla fattispecie, incoerenza peraltro a suoi precedenti (art. 606 co. 1 e) c.p.p.), ma allorché rileva che il solo “far parte” della associazione implicherebbe assoggettamento ed omertà, da un lato fa coincidere eventi, quelli adesso indicati, con i presupposti delle condotte che li genererebbero, la partecipazione, da un altro, elimina le condotte generative  di essi, imposte alla fattispecie dal verbo “avvalersi” che certo né naturalisticamente né semiologicmente è identificabile nell’elemento del “far parte” che, ripetesi, è presupposto delle condotte or dette (art. 606.1 b) e) cpp); la sentenza non potrebbe sussumere più agevolmente l’imputazione (art. 606 co. 1 b) c.p.p.);    14. Si è però anche detto che non è sufficiente, per qualificare un’associazione per delinquere ai sensi dell’art. 416 bis c.p. che l’associazione stessa abbia programmato di avvalersi della forza di intimidazione e della conseguente condizione di assoggettamento e di omertà, ma è necessario che se ne sia già avvalsa concretamente (Sez. I, 8 luglio 1995, Costioli). Una proposizione che va attentamente meditata perché se, per un verso, parrebbe spostare in avanti la soglia della condottapunibile ex art. 416 bis c.p., per un altro verso, dovendo la carica intimidatoria essere commisurata alla natura del sodalizio non fa che esprimere un’esigenza (che appartiene, più che alla identificazione sostanziale, al momento probatorio) connaturata alla stessa funzione della normaincriminatrice; in altri termini, se il sodalizio è noto per la sua carica di terrore, sembra chiaro che, essendosi già instaurato il clima di assoggettamento e di omertà, assumerà maggior rilievo il profilo finalistico, per essere l’associazione “in sé” mafiosa. Se, invece, l’associazione non abbia raggiunto una tale “notorietà”, occorrerà vagliare, anzi tutto, se, in concreto, la forza intimidatrice sia stata o no utilizzata. È certo, inoltre, che la statuizione debba essere letta nel senso che l’elemento caratterizzante l’associazione mafiosa si incentra sul grado di diffusività della sua forza intimidatrice, che non può essere dedotta da fatti episodici, ma va ricavata dalle concrete situazioni di assoggettamento e di omertà. Una soluzione questa che sembra raggiungere lo stesso approdo cui la giurisprudenza era pervenuta in precedenza, affermando che le dette condizioni devono riferirsi non ai componenti interni, essendo siffatti caratteri presenti in ogni consorteria, ma ai soggetti nei cui confronti si dirige l’azione delittuosa, essendo i terzi a trovarsi, per effetto della diffusa convinzione della loro esposizione a un concreto e ineludibile pericolo, dì fronte alla forza dei”prevaricanti”, in uno stato di soggezione (Sez. I, 24 febbraio 1992, Barbieri).   14.1 Torna la relazione della associazione “mafiosa” alla associazione per  delinquere, laddove quella mafiosa non è o non è sempre una associazione per delinquere che ha immancabilemente fine di delitto; e, peraltro, la insufficienza, della programmazione, nell’avvalimento della forza intimidatrice, alla integrazione della fattispecie, dovendo questa in concreto avere a presupposto la forza intimidatrice e l’avvalimento a sua condotta, ben precisata peraltro dalla sentenza Sez, Un. sopra cit. D’altro canto, non è affatto ritardamento della integrazione della fattispecie “spostare in avanti” l’evento complesso di essa, bensì rifiuto fermo della antecipazione della integrazione della fattispecie, tanto che la programmazione suddetta costiturebbe semmai tentativo di causazione degli eventi di promozione. o di costituzione o di organizzazione della fattispecie; la fluttuazione arbitraria nella sequenza di fattispecie dei suoi elementi ne ha permesso il ravvisamento nella imputazione (art. 606 co. 1 b) c.p.p.);     15. Si spiegano così talune statuizioni giurisprudenziali in ordine alla nozione di forza di intimidazione. Si è, infatti, precisato che, ai fini della sussistenza del reato di associazione di tipo mafioso la intimidazione interna al sodalizio, pur se rilevante sotto il profilo dell’estrinsecazione del metodo mafioso, non può prescindere dall’intimidazione esterna, poiché elemento caratteristico dell’associazione in questione è il riverbero,  la  proiezione  esterna,  il  radicamento  nel territorio in cui essa vive; assoggettamento ed omertà devono, pertanto, riferirsi non ai componenti interni,essendo siffatti caratteri presenti in ogni consorteria, ma ai soggetti nei cui confronti si dirige l’azione delittuosa, essendo i terzi a trovarsi, per effetto della diffusa convinzione della loro esposizione a pericolo, in stato di soggezione di fronte alla forza dei prevaricanti. Quanto alla diffusività di tale forza intimidatrice, si è detto che essa non può essere virtuale, e cioè limitata al programma dell’associazione, ma deve essere effettuale, siccome manifestazione della condotta, essendo la diffusività un carattere essenziale della forza intimidatrice, con la conseguente necessità che di essa l’associazione si avvalga in concreto, cioè in modo effettivo (Sez. V, 19 dicembre 1997, Magnelli). Pur se pare, forse, contestabile, il solo richiamo al profilo esterno della forza di intimidazione el’assimilazione sotto il profilo interno dell’associazione per delinquere all’associazione per delinquere di tipo mafioso, risulta chiaro come il concetto di diffusività della carica intimidatoria, richiamato spesso in giurisprudenza, rappresenta uno dei profili più designanti, anche al fine di vagliare le connotazioni personali minimedel sodalizio.   15.1 L’enunciato è corretto, esso, nondimeno, è incongruo ad altri, precedenti,  è confermata l’ipotesi sub 6.1 della motivazione apparente ( art. 606 co. 1 e) c.p.p.);     16. Ma altrettanto significante è la nozione di omertà quale espressa dal “diritto vivente”; nel senso che si richiede che il rifiuto di collaborare con gli organi dello Stato sia sufficientemente diffuso, anche se non generale; che tale atteggiamento sia dovuto non soltanto alla paura di danni alla propria persona, ma anche all’attuazione di minacce che comunque possono realizzare danni rilevanti; che sussista la diffusa convinzione che la collaborazione con l’autorità giudiziaria – denunciando il singolo che compie l’attività intimidatoria – non impedirà che si abbiano ritorsioni dannose per la ramificazione dell’associazione, la sua efficienza, la sussistenza di altri soggetti non identificabili e forniti di un potere sufficiente per danneggiare chi ha osato contrapporsi (Sez. VI, 31 gennaio 1996, Alleruzzo). Quasi compendiando i riferiti principi, gli elementi qualificanti il sodalizio criminoso di cui all’art. 416 bis c.p. sono stati correttamente ritenuti essenzialmente inerenti al modus operandi dell’associazione ed alla specificità del bene giuridico leso. Il primo consiste nell’avvalersi della forza intimidatrice che promana dalla stessa esistenza dell’organizzazione, alla quale corrisponde un diffuso assoggettamento nell’ambiente sociale e, dunque, una situazione di generale omertà.   16.1 Se l’evento di condizionamento di omertà non fosse descritto in relazione alle richieste di informazione, addirittura di collaborazione con gli organi dello stato (non è scritto in nessuna parte della fattispecie,  e un elemento culturale di questa, se si desse solo davanti quelle richieste non sarebbe tale,  supporlo tuttavia espunge dalla fattispecie l’elemento, e ne agevola l’uso, come in specie rispetto alla  imputazione che non lo descrive: art. 606 co. 1 b) c.p.p.), esso sarebbe adeguatamente esposto;   17. La seconda si incentra nel rilievo che, attraverso lo strumento intimidatorio, l’associazione si assicura la possibilità (fra l’altro) di commettere più delitti. Dal profilo concernente il “vincolo associativo” e la sua forza intimidatrice sembrano estranei gli aspetti organizzativi e pluripersonali del sodalizio che devono rispondere soltanto ai requisiti di cui all’art. 416 bis c.p…   17.1 La associazione “mafiosa” non deve assicurarsi affatto la possibilità di commettere delitti perchè essa può anche non finalizzare delitti, per quanto detto sopra; dirlo favorisce  la torsione dei delitti della imputazione verso la associazione   (art. 606 co.1 b) c.p.p.)   18. La giurisprudenza è, però, anche orientata nel senso che la prova del carattere mafioso di una consorteria può essere desunta dall’esistenza di un’efficiente organizzazione e di un rigoroso legame associativo, dei quali sono chiari sintomi la convocazione degli adepti per un’adunanza da tenersi in una località nascosta o poco accessibile, il numero delle persone che vi partecipano, la dislocazione di alcuni individui con compiti di custodia (Sez., 6 marzo 1984, Zappia). Ancora, si è detto che la prova degli elementi caratterizzanti la ipotesi criminosa di cui all’art. 416 bis c.p. può ben essere desunta anche con metodo logico induttivo in base al rilievo che il clan presenti tutti gli indici rivelatori del fenomeno mafioso: segretezza del vincolo; rapporti di intensa frequentazione; rispetto assoluto del vincolo gerarchico; diffuso clima di omertà, come conseguenza e indice rivelatore dell’assoggettamento alla consorteria (Sez. VI, 31 gennaio 1996, Alleruzzo). Non mancandosi più volte di rimarcare che in tema di reato associativo gli indizi sulla sussistenza del reato possono essere legittimamente tratti dalla commissione dei reati fine, interpretati alla luce dei moventi che li hanno ispirati, quando questi valgano ad inquadrarli nella finalità dell’associazione (Sez. VI, 22 febbraio 1996, Marciano); che, ai fini dell’affermazione di responsabilità di taluno in ordine al reato di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, non occorre la prova che egli abbia personalmente posto in essere attività di tipo mafioso, essendo, al contrario, sufficiente la sola sua aggregazione a un’organizzazione le cui obiettive caratteristiche siano tali da farla rientrare nelle previsioni dell’art. 416 bisc.p. (Sez. I, 28 settembre 1998, Bruno).   18.1 osservazione siffatta, ha già dissolto tutti gli elementi della fattispecie, e della realtà designata, ha ridotto essa a pura mafiosità, a stile mafioso di qualunque comportamento (anche parlare siciliano cabarettistico? ),  gli associati a “ommini” od “ommini di panza” (denominazioni di Sciascia), che scamperebbero alla persecuzione giudiziaria per lo stile di vita soltanto se “omminicchi”, o “quaquaraqua”…; la sussunzione della imputazione non potrebbe essere più agevole (art. 606 co.1 b) c.p.p.);   19. L’aspetto predominante della forza intimidatrice del vincolo associativo nell’ambito del fatto reato descritto dall’art. 416 bis c.p. ha finito per relegare ad un ruolo, in un certo senso secondario, il profilo concernente le finalità il cui perseguimento è richiesto dalla legge per qualificare l’associazione come di tipo mafioso. Davvero emblematica appare allora proprio sul piano metodologico la statuizione stando alla quale la tipicità del modello associativo delineato dall’art. 416 bis c.p. nelle modalità attraverso cui l’associazione si manifesta concretamente e non negli scopi che si intendono perseguire, atteso che questi, nella formulazione della norma ora ricordata, hanno un carattere indicativo ed abbracciano solo genericamente i “delitti”, comprendendo una varietà indeterminata di possibili tipologie di condotte, che possono essere costituite anche da attività lecite, che hanno come unico comune denominatore l’attuazione od il conseguimento del fine attraverso l’intimidazione ed il conseguente insorgere nei terzi di quella situazione dì soggezione che può derivare anche dalla conoscenza della pericolosità di tale sodalizio (Sez. I, 10 febbraio 1992, D’Alessandro). 19.1 Qui, dapprima, sia pure defilati,  compaiono  gli scopi quali elemento della associazione, poi scompaiono, per liberare, spogliate dei vincoli teleologici, le condotte, che, addirittura,  potrebbero essere lecite: e tuttavia essere qualificate dai fini. A parte la incongruenza della riapparizione dopo la sparizione: se le condotte potessero essere lecite, potrebbero non avvalersi della “forza..” del “vincolo..” e non generare assoggettamento od omertà, essere condotte  libere, nondimento di tutt’altra non di questa fattispecie, che dunque, peraltro contrariamente a precedenti enunciati,  è  disgregata dalla sentenza (è ribadita l’ipotesi della motivazione apparente sub 6.1: art. 606 co. 1 e) c.p.p.); laddove finanche per assioma esse, già perché corrispondenti ad un tipo incriminante, non potrebbero che essere illecite, leciti semmai, lo si diceva sopra, potendo essere gli scopi (in sé) della associazione, crescenti dunque nel ruolo di demarcazione dall’ altra fattispecie della associazione per delinquere; se gli scopi evaporano e le condotte levitano,  la imputazione è pienamente assoggettata (art. 606 co. 1 b) c.p.p.);    20. Due ulteriori precisazioni sembrano, peraltro, estremamente significative sulla tematica dei fini perseguiti: la prima è che nell’associazione di tipo mafioso tali fini devono essere intesi in senso alternativo e non cumulativo, anche perché, con la previsione fra gli scopi del sodalizio mafioso del controllo di attività economiche, il legislatore ha avuto di mira l’esigenza di ampliare l’ambito applicativo della fattispecie, estendendolo alla realizzazione di attività di per  sé formalmente lecite; con la conseguenza che, prevedendo l’art. 416 bis c.p. finalità associative non direttamente riferibili all’economia pubblica, l’ordine pubblico economico si atteggia soltanto come oggetto giuridico eventuale del delitto in esame, il quale, come risulta dalla rubrica del titolo V del libro II del codice, in cui è inserito, è essenzialmente diretto contro l’ordine pubblico generale (Sez. VI, 3 giugno 1993,De Tommasi): linea interpretativa ribadita dall’affermazione che la consorteria è di tipo mafioso quando il vincolo associativo ha una particolare intensità e stabilità, di guisa che essa, avvalendosi della forza di intimidazione del medesimo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, esista e operi permanentemente fuori della legge e abbia a presidio un’organizzazione stabilmente rivolta al conseguimento dei suoi scopi. La seconda è che, ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., non è necessario che siano raggiunti effettivamente e concretamente gli scopi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice ne’, perché si realizzi la situazione di partecipazione dei singoli associati, è indispensabile che ciascuno utilizzi la forza di intimidazione; la condotta di partecipazione può, infatti, assumere forme e contenuti diversi e variabili, consistendo nel contributo apprezzabile e concreto sul piano causale all’esistenza ed al rafforzamento dell’associazione e, quindi, alla realizzazione dell’offesa degli interessi tutelati dalla norma incriminatrice, qualunque sia il ruolo o il compito che il partecipe svolga nell’associazione (Sez. I, 15 aprile 1994, Matrone). Si è così ritenuta integrata la condotta di partecipazione ad un’associazione per delinquere di tipo mafioso nella fornitura di mezzi materiali a membri dell’associazione e nella trasmissione di messaggi tra membri influenti della medesima, in quanto tali attività ineriscono al funzionamento dell’organismo criminale, sia sotto il profilo della disponibilità di risorse materiali utilizzabili per l’operare di questo, sia sotto quello della predisposizione di canali informativi tra i suoi membri, che è incombenza di primaria importanza per il funzionamento dell’associazione per delinquere (Sez. I, 25 giugno 1996, Trupiano). 20.1 Rientrano i fini, adesso, di gran carriera, apertamente demarcatori, alternativamente,  della tipicità degli eventi e delle condotte, incoerendo a ben altri enunciati, in apparenza di motivazione  (art. 606 co. 1 e) b) c.p.p.);   21. Si è aggiunto che fa parte di un’associazione mafiosa chi presti un consapevole contributo alla vita del sodalizio di cui conosca le caratteristiche, sapendo di avvalersi della forza intimidatrice del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano per realizzare i fini previsti dall’ultima parte del terzo comma dell’art. 416 bis c.p. (Sez. VI, 22 gennaio 1997, Dominante). Non mancandosi di precisare che, ai fini della configurabilità del reato di partecipazione ad un’associazione per delinquere di tipo mafioso, non è necessario che il vincolo tra il singolo e l’organizzazione si protragga per una certa durata, ben potendo, al contrario ravvisarsi il reato anche in una partecipazione di breve periodo (Sez. VI, 17 novembre 1998, Cortes).   21.1 ma un enunciato battente così chiaramente sulla preesistenza della associazione (con tutti i suoi elementi di specie, “forza etc…) alla partecipazione, per quanto incoerente ad altri, come ha potuto sussumere la imputazione, che costituirebbe la associazione con e nei delitti scopo (art. 606 co. 1 e) b) c.p.p.)?;   22. Sul piano del discrimine tra la fattispecie di cui all’art. 416 e la fattispecie di cui all’art. 416 bis, si è osservato che, se per la configurabilità del primo reato la condotta penalmente rilevante si incentra nella costituzione di un sodalizio avente per scopo la consumazione di più delitti (quindi, il fatto associativo è previsto dal legislatore nel suo prodursi come entità che è criminosa per la natura criminosa del fine che ispira e muove gli autori del fatto), perché sussista, invece, il reato di cui all’art. 416 bis c.p. è penalmente rilevante non il fatto e la condotta produttiva del sodalizio – momento indifferente, in astratto, per la valutazione del giudice penale – ma il metodo, i mezzi utilizzati dal sodalizio e dai suoi associati, le finalità, una sola delle quali (commettere delitti) è comune all’associazione per delinquere. I fatti oggetto delle norme ora ricordate sono, quindi, sostanzialmente diversi, ontologicamente distinti, funzionalmente autonomi, pur sussistendo la possibilità di conversione di un’associazione per delinquere di tipo comune in un’associazione per delinquere di tipo mafioso (Sez. I, 10 aprile 1987, Saviano).   22.1 Distinzione sostanzialmente corretta, quando perdesse l’enunciato per “cui è penalmente rilevante.. la condotta che costituisce il sodalizio”, nella associazione per delinquere comune, mentre in quella “mafiosa” sarebbero rilevanti il metodo, i mezzi…; quando lo perdesse,  perché esso pungola l’ipotesi che delle associazione predette si sia dileguata la nozione, perché,  ritenere che sia irrilevante la condotta di costituzione, ignora che essa è (inderogabilmente) una,  delle condotte, “primarie”, della associazione (promozione organizzazione costituzione), una delle condotte tipiche,  insieme a quella di partecipazione, delle  condotte che integrano il fatto di associazione sia nella associazione per delinquere che in quella “mafiosa”;  con la differenza che i presupposti di questa differiscono dai presupposti di  quella, e che i mezzi sono rilevanti in questa e non in quella solo perché, alle condotte “primarie” e “secondarie” della associazione, si aggiunge, in quella mafiosa, l’avvalersi… (art. 606 co. 1 b) c.p.p.);   23. Caratteri strutturali comuni fra i reati di cui agli artt. 416 e 416 bis sono, dunque, l’accordo a carattere generale e continuativo volto all’attuazione di un programma di delinquenza destinato a permanere anche dopo l’eventuale perpetrazione di ciascun delitto programmato, il numero minimo di tre associati nonché la predisposizione comune di attività e mezzi per la realizzazione del generico programma delinquenziale. Ciò che differenzia l’associazione di tipo mafioso dalla comune associazione per delinquere, conferendo alla prima carattere di specialità, è la previsione sia di particolari obiettivi criminosi costituiti, non soltanto dal compimento di fatti antigiuridici, sebbene anche dalla gestione e dal controllo di settori di attività economiche, sia dalla particolare efficacia intimidatrice del vincolo associativo sprigionantesi dal sodalizio, nel senso che esso assume il connotato di mafioso allorché gli associati si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare le finalità indicate nel co. 3  dell’art. 416 bis c.p. (Sez. I, 30 settembre 1986, Amerato).   23.1 l’ipotesi della apparenza della motivazione per le ragioni sub 6.1 è oramai certa (art. 606 co. 1 e) c.p.p.), quando poi si noti che le associazioni avrebbero per nucleo un accordo e per contorno un programma, la ipotesi del trascendimento della  realtà giuridica  della associazione esàgita, giacchè, la sentenza,  neppure distingue tra reati di accordo e reati di associazione (vd distinti sub : art. 606 co. 1 b) c.p.p.); vd infra.    24. È appena il caso di rammentare che l’elemento distintivo tra i delitti associativi di cui agli artt. 416 e 416 bis c.p. e la semplice compartecipazione criminosa di cui all’art. 110 dello stesso codice è costituito dalla natura dell’accordo criminoso. Nel concorso di persone nel reato l’accordo si realizza in via occasionale e accidentale per il compimento di uno o più reati determinati, con la realizzazione dei quali si esaurisce, sicché, cessa ogni pericolo per l’ordine pubblico; nei delitti associativi, invece, l’accordo criminoso è diretto all’attuazione di un più vasto programma che precede e contiene gli accordi concernenti la realizzazione dei singoli crimini e che permane dopo la realizzazione di ciascuno di essi (Sez. I, 1A luglio 1987, Ingemi). Peraltro, pure se l’accordo può costituire elemento comune sia al concorso di persone nel reato sia all’associazione per delinquere, i due fenomeni restano caratterizzati da aspetti strutturali e teleologiche profondamente differenziati. Dal primo punto di vista, l’accordo che designa la fattispecie plurisoggettiva semplice (sia essa necessaria ovvero eventuale) è funzionale alla realizzazione di uno o più reati (anche uniti dal vincolo della continuazione), consumati i quali l’accordo si esaurisce o si dissolve (cfr., ex plurimis, Sez. I, 22 settembre 1994). Del resto, l’accordo, in tanto diviene rilevante nei confini della mera ipotesi concorsuale in quanto pervenga alla concreta realizzazione dell’assetto divisato, ad un’attività esecutiva, dunque, che non si arresti alle soglie del tentativo. Può ribadirsi, allora, che il mero accordo allo scopo dì commettere un reato, non traducendosi in un’attività di partecipazione al reato stesso, resta assoggettato al principio di ordine generale stabilito dall’art. 115 c.p. A questa regola il 1° comma di tale articolo enuncia un’espressa eccezione ma sempre relativa all’ipotesi in cui “due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso”; cosicché può contestarsi che i criteri interpretativi destinati a risolvere le (solo apparenti) antinomie fra accordo non punibile e reato associativo possano essere compiutamente individuati chiamando in causa il solo principio di specialità. E ciò per la mancanza di un vero e proprio rapporto di genere a specie, postulando il reato associativo una base plurisoggettiva qualificata, non richiesta, invece, nell’ipotesi di accordo. Una constatazione che vale anche ai fini della distinzione tra fattispecie meramente concorsuale e fattispecie associativa, rappresentando il minimum soggettivo richiesto dalla legge relativamente alla seconda categoria di reati un dato non richiesto per l’attività di mera partecipazione, così da consentire l’utilizzazione del medesimo criterio interpretativo pure – è quel che più interessa – nel discriminare le categorie ora ricordate. Per la sussistenza dell’accordo associativo, dunque, l’accordo (coessenzialmente aperto) è destinato a costituire una struttura permanente ove i singoli associati divengono – ciascuno nell’ambito dei compiti assunti o affidati – parti di un tutto finalizzato a commettere una serie indeterminata di delitti. È la struttura, anche rudimentale, del sodalizio che designa la figura associativa così da caratterizzarla per la necessaria predisposizione del programma criminoso, di dati dì assoluta singolarità e da rendere, in fondo, ininfluente l’inserimento del reato di associazione per delinquere nella categoria dei reati a concorso necessario, altri risultando gli elementi decisivi ai fini dell’identificazione dell’essenza stessa di tale reato. Predominante diviene, allora, il profilo teleologico: il particolare allarme sociale derivante dalla struttura giustifica, infatti, la previsione di una autonoma figura di reato contrassegnata, sul piano delle finalità repressive perseguite dall’ordinamento, dal pericolo per l’ordine pubblico per il cui concretizzarsi la legge non richiede, a differenza di quanto accade per l’accordo che si inserisca quale momento cruciale del reato meramente plurisoggettivo, che i delitti per la commissione dei quali la socìetas sceleris è stata costituita vengano effettivamente realizzati (cfr. Sez. VI, 12 maggio 1995, Mauriello).   24.1 Se tra accordo ed associazione fosse concorso di norme apparente per specialità della seconda, allora il primo dovrebbe contenere naturalisticamente e giuridicamente la seconda, tuttavia specializzata da altra norma, mentre è evidente che il primo non contiene affatto la seconda, e che la seconda non necessariamente contiene il primo (associazione che si costituisca gradualmente), ma, se lo contenesse, accidentalmente, non lo farebbe per specificazione di un genere ma per progressione o consunzione; e che tra l’uno e l’altra non sia alcun rapporto, è dato dal rilievo che il primo è forma plurisoggettiva della fattispecie monosoggettiva la seconda è forma plurisoggettiva della fattispecie plurisoggettiva, è questa stessa; e d’altronde ritenere che non sia fattispecie necessariamente plurisoggettiva pur essendo  forma costante della fattispecie, implica travisare principi  di diritto penale, fino al punto di ritenere che la deroga alla previsione di cui all’art. 115 cp “salvo che la legge disponga altrimenti”  sia riferita alle associazioni!!: laddove non potrebbe che essere riferita ad accordi, altri da quello previsto in art. 115, essendo clausola di specialita espressa che non può non identificare fattispecie a medesimo nucleo,  specializzate, come  accade tra fattispecie generali e speciali, peraltro esistenti, quella in art. 304 cit ; a queste condizioni, la assoggettabilità della imputazione è assoluta (art. 606 co. 1 e) c.p.p.);    25. La giurisprudenza ha chiarito come la figura di reato prevista dal l° comma dell’art. 416 bis c.p. presuppone due diversi e successivi comportamenti: l’uno attivo, consistente nel compimento diun atto di associazione e l’altro omissivo, consistente nell’assenza di un atto di recesso (così Sez. I, 27 febbraio 1992, De Carli), cosicché il delitto di cui all’art. 416 bis si perfeziona nel momento in cui colui che ha assunto la qualità di membro del sodalizio omette di recedere e si consuma nel momento in cui lo stesso recede volontariamente (o, essendosi l’associazione sciolta o ridotta ad un numero inferiore a quello legale, il recesso o è impossibile o diviene giuridicamente irrilevante; Sez.I, 22 aprile 1985, Fallica). In conclusione, l’elemento materiale del reato è costituito dalla condotta di partecipazione, intendendosi per tale la stabile permanenza di vincolo associativo tra gli autori del reato (almeno in numero di tre), allo scopo di realizzare una serie di attività tipiche dell’associazione e per “tipo mafioso”, (la sussistenza degli elementi elencati dal 3° comma dell’art. 416 bis, qualificanti tal genere di organizzazione criminosa), mentre quello soggettivo rappresentato dal dolo specificocaratterizzato dalla cosciente volontà di partecipare a detta associazione con il fine di realizzarne ilparticolare programma e con la permanente consapevolezza di ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso, di essere cioè disponibile ad operare per l’attuazione del comune programma delinquenziale con qualsivoglia condotta idonea alla conservazione ovvero al rafforzamento della strutturaassociativa (Sez. I, 15 maggio, 1994, Clementi).   25.1 Se le condotte fossero di partecipazione, se non si avessero anche condotte di organizzazione o di direzione, della associazione  costituita dopo la promozione,  mancherebbe il nucleo primario di essa e mancherebbe per conseguenza il nucleo secondario, della partecipazione appunto;  se le condotte dovessero essere tese alla conservazione ed al rafforzamento della associazione, da un lato sarebbero evocate  condotte sul nucleo primario non previste, essendo previste  solo quelle di promozione costituzione organizzazione etc…, ogni altra condotta sul nucleo secondario essendo detta  partecipazione;  da altro lato sarebbero sostituite le condotte primarie  tipiche,  con altre atipiche, essendo le condotte di coloro che “facciano parte” integrate da azioni od omissione tese agli scopi tipici, specificate da essi e qualificate dall’avvalimento della forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà; condotte conservative e rafforzative, dunque,  sarebbero necessariamente  di aiuto, non meglio tipizzate, estranee alla associazione (pur se intranee ad altre fattispecie eventualmente: artt. 378, 379, 418 c.p.); per quanto ad essa riferibili; le ricadute sulla interpretazione della imputazione sono ovvie (art. 606 co. 1 b) c.p.p.); *** 26. Tutti tali connotati sono ad evidenza ravvisabili nella condotta tenuta dagli imputati, come delineata nei precedenti paragrafi.   26.1 In verità i “connotati” avrebbero dovuto essere ravvisati nella“condotta” degli imputati non come supposta dalla premessa giuridica vista, ma come descritta, insieme ai fatti relativi, dalla imputazione……………. pietro diaz

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SULLA PRESCRIZIONE DEI REATI

1. Se la prescrizione fosse preposta alla accelerazione dei processi,sarebbe una norma processuale. Laddove l’art 157 del codice penale, oltre che ubicarla tra le norme di diritto penale- insieme a tante altre certo non accelerative del processo (si pensi alla sospensione condizionale dela pena, art 163 cp!)-, ne dice che “estingue il reato”.
Cioè la pone nella costellazione delle norme operanti nel reato.
Inoltre
2. Se la prescrizione fosse preposta allaaccelerazione dei processi, sarebbero (tendenzialmente) inspiegabili, oltre la notevole variazione dei suoi termini temporali in relazione a singoli reati (o a categorie di reati):
l’incidenza, sulla variazione, della loro gravità (espressa nella pena, a sua volta indice, pur non equivoco, della loro gravità sociopolitica);
l’assenza di termini temporali (reati imprescrittibili).
2.1 E se la variazione dei termini (finali, ma anche iniziali, in rapporto a talune forme di reati: reato abituale. reato permanente..) della prescrizione ha fondamento sostanziale:
da un lato, logicamente, non può averlo processuale ( quindi, la coincidenza -peraltro solo tendenziale -fra termini processuali e sostanziali, vede i primi quale effetto, non quale causa, di questi;
da altro, giammai potrebbe averlo, perchè se la variazione (dei termini) sta nella gravità dei reati, è ovvio che, essa, almeno essenzialmente, non possa influire sui tempi del processo.
3. Ma se la variazione dei termini della prescrizione ha fondamento sostanziale, allora sostanziali sono le ragioni che li determinano. E nel competente ambito vanno ricercate.
3.1 All’origine dei “sistemi giuridici penali”, tutti menomativi o distruttivi, sempre invariabilmente offensivi, del soggetto coinvolto, si rinviene la moderazione della inimicizia bellica – di un gruppo sociale ad un altro – alseguito della vittoria dell’uno sull’altro.
3.2 La supremazia conseguente evolve, organizzativamente, nella trasformazione della inimicizia originaria, bellica, in inimicizia “correzionale” ( poliziaca, non più militare, fatta di singolari punizioni più o meno corporali , imprigionamenti, soppressioni etc), moderatrice della precedente, ritualizzatae e formalizzata come inimicizia giudiziaria.
3.3 La quale, inoltre, è riproducibile continuamente, non solo con laattuazione dei presupposti dati, ma anche con la rinnovazione di questi. Così che anche gli eventuali ritorni (istintivi) della inimicizia originaria si stemperino nella espansione di quella successiva.
D’altronde, va assiomatizzato che, il reato non esiste in sé (quale spontanea espressione del divenire sociale), ma esiste in quanto appositamente prefigurato e predisposto.
3.4 Cioè, esso è il mezzo del prolungamento della forma bellica della inimicizia nella forma giudiziaria; del prolungamento del comando militare nel comando poliziaco-.
3.5 Tutto ciò, conformemente ad una “legge fisica”, di natura, e quindi universalizzante il suo prodotto.
4. Se, difatti, si da uno sguardo a qualunque parte del mondo -comunque costituita sociopoliticamente istituzionalmente giuridicamente, culturalmente (!)-, si coglie il medesimo passaggio, dalla inimicizia bellica a quella giudiziaria. Si rinviene la processualizzazione della prima attraverso l’organizzazione della seconda ( è ciò conferma irrefragabilmente la universalità della legge suddetta!).
4.1 D’altro canto, il movimento in avanti, trasformativo della inimicizia bellica, può andare anche all’indietro. E ritornare ad essa, sia verso il medesimo gruppo, sia verso altri gruppi (contemporaneamente o successivamente).
Con ineluttabilità ciclica, d’altronde coerente alla fisicità del fenomeno, allasua legge.

Ebbene

5. Storicamente, insieme ed al modo della inimicizia bellica,anche l’inimicizia giudiziaria ha avuto tregue, pause, “armistizi”, paci.
Entrambe, sembra, in concomitanza della deassolutizzazione, della relativizzazione dei “comandi supremi”, (quindi) della decrescita delle sudditanze, (se si vuole) della crescita delle “democrazie”.
5.1 E tregue pause armistizi paci,nella inimicizia giudiziaria hanno assunto forma di Grazie, Indulti (estinzioni dei pene ) Amnistie, Remissioni (didenunce o querele), Prescrizioni (appunto).
5.2 Tutte modernamente, nel diritto italiano, definite fattori di estinzione dei reati ( o delle pene). Tutte mezzi di interruzione o mitigazione della inimicizia giudiziaria- che hanno anche inteso marcare (talvolta ostentatamente ) occasionali beneficii sovrani ( Amnistie o Grazie),piuttosto che sottosistemi interruttori o mitigatori (come la sospensione condizionale della pena, o il perdono giudiziale , e ) come la prescrizione!

Quindi

6. La “prescrizione dei reati”ha voluto assegnare un termine (temporale) alla inimicizia giudiziaria, sia pure calibrato sulla reità del soggetto avversato.
8. Percio la prescrizione, funzione di modificazione progressiva del suesposto fondamento culturaledel diritto penale, va tutt’altro che rimossa, quale causa di diseducazione del condannando.
Va all’opposto mantenuta quale fattore di rieducazione del condannante.

7.1 D’altronde, non pregiudicando alcun diritto alla riparazione del danno della vittima (oggi, peraltro, è crescente il numero dei reati senza vittima: droga etc.); sempre esercitabile nella giustizia civile.

pietrfo diaz

OMICIDIO MEDIANTE SUICIDIO (e viceversa)?


1. Da qualche tempo, una prassi giudiziaria esaltata  dalla “Suprema Corte”   impone all’operatore di  raccapezzarsi  con  l’ antilogia nel titolo. Tale,   perchè:

l’omicidio, cagionativo della morte dell’altro da sé,   comportamento letifero transitivo e irriflessivo,  è all’opposto del suicidio, cagionativo della morte di sé, a comportamento  intransitivo e riflessivo!

Dunque la fusione (strumentale)  di entrambi,  è antilogica.

1.1. Ed  impone, quella prassi,  di raccapezzarsi con l’ antinomia nel titolo. Tale perchè:

l’omicidio (di cui  agli artt 575 584 589 cp, oltre altri, e oltre tutti in casi di evento morte quale conseguenza di altro delitto..), è  fatto e fattispecie,  giuridici,  altro dal suicidio  (di cui all’art 580 cp..). 

Dunque la fusione (giuridica) di entrambi è antinomica. 

1.2 E la fattispecie (giudiziaria o dottrinale)  che richiamasse uno d’essi non potrebbe fonderlo  giuridicamente con l’altro. Anche perché, rispetto ad essa, essi ne sarebbero “elementi normativi”, solo richiamabili, immodificabili e tanto meno sopprimibili in quanto tali. Da evocare ed esporre pedissequamente, cosi come siano (anche per il principio di “stretta legalità”, per cui,  quando in qualsiasi  contesto linguistico -comunque orientato finalisticamente-  sia evocato una fatto giuridico, questo  si trae intero dall’involucro della relativa  fattispecie).


2. Pertanto,  la suddetta prassi, esaltata dalla “Suprema Corte” ,  impone all’operatore di dar vita all’assurdo. Come se niente fosse, e, anzi, come  se gli fosse concesso dI violare logica e diritto, di sguazzare nella dileggio del  principio di non contraddizione.


2.1 E così, particolarmente  in ambito medico o infermieristico, quando taluno,  sfuggendo  repentino al controllo, si suicidi, ai sanitari è rivolta l’accusa di “omicidio colposo”. Ex  art. 589 cp, talvolta adornato dall’art 40.2 cp ( “non impedire un evento,  che si ha l’obbligo giuridico di impedire,  equivale a cagionarlo”).
Che, tuttavia,  non distoglie l’accusatore  dall’usare il verbo  “cagionare” (“ha cagionato”) in senso proprio, materiale; mentre dovrebbe usarlo in senso improprio,  quale equivalente normativo. Perché, altrimenti, egli raffigura, in sostanza,  una fattispecie commissiva, in luogo della debita  fattispecie “commissiva mediante omissione”!.

Ed è rivolta, si diceva,   l’accusa di omicidio colposo, tout court, senza aggiunta, ovviamente. Bene attenta ad essere reticente,   a non esporre il fatto nella sua interezza: omicidio mediante suicidio. Perché ciò  tradirebbe l’antilogia e l’antinomia.  Cioè che  l’omicidio sarebbe commesso  mediante suicidio ( e viceversa)!

2.2 Mentre è certo che non si dia morte ad un altro suicidandolo, come è certo che non si dia morte a sé  omicidandosi.

Ripetesi, ci si suicida mediante  omicidio tanto quanto ci si omicida mediante suicidio! Neppure mentalmente.
 Altrimenti,  si apporterebbe  non solo il suddetto tradimento, ma l’autofagia stessa dell’accusa. Giacchè – fatalmente risultando, in processo, che la morte è derivata da suicidio, non sussisterebbe  omicidio!

Ma incidentalmente:

2.3 Eventualità, questa, che tuttavia, estranea,  come detto.  alla prassi esaltata  dalla “Suprema Corte” (che più volte ha condannato per omicidio chi abbia avuto a che fare con un suicidio;  e non una volta, che qui  si sappia,  ha assolto adducendo l’assurdo sopra visto)-, invero,  tacitamente appartiene ad una  prassi ignorata dalla “Suprema Corte”.
Quella che mai ha accusato chi abbia avuto a che fare con  i suicidii in carcere (settanta ad anno in media!). A che fare con essi, mediante comportamenti in nulla (se non in maggiore induttività) differenti  da quelli dell’altra prassi.  

Ebbene
Tanta  (con)fusione antilogica,   antinomica,  di fatti e fattispecie; e della mente giudicante, perché  è sorta?

3. La  prassi (in parola) annovera comportamenti (per lo più omissivi: di sedazione di controllo di contenzione; ma anche commissivi, di  erroneo trattamento terapeutico) riconducibili tutti, oggettivamente,  ad agevolazione (art 580.1 cp) del   suicidio. Cioè  ad atti di “aiuto” (art. 580.2)  materiale – differenti ovviamente da quelli,  morali (di determinazione del suicidio o di rafforzamento del suo proposito), che necessariamente presuppongono il loro indirizzamento alla induzione del suicidio- .

Onde,  quando  essi rinvenisse, l’accusa non potrebbe che orientarsi a contestare l’agevolazione al suicidio.
Tutt’altro che l’omicidio (!),  perché,  quelli, sono comportamenti esclusivamente interni alla fattispecie (oggettiva e soggettiva) del suicidio.
E d’altronde,  come si diceva, non si ha omicidio mediante suicidio.

Ma se l’accusa così (come dovuto) si orientasse, quando  i comportamenti non risultassero dolosi ( e negli ambiti operativi sopra indicati non risultano),  essendo imputabili, ex art 42.2 cp esclusivamente a titolo di dolo,  non potrebbe incalzare l’accusato.
Si dovrebbe fermare, e dirigersi verso la propria archiviazione: perché il fatto non è preveduto dalla legge come reato.  

3.1 Assolutamente. Irrefragabilmente.

Pertanto

4. Appare in chiara luce di che cosa sia capace taluna  prassi,  condannatoria a qualunque costo.

Al costo di antilogie e antinomie non timorate dell’assurdo più eclatante.  

E perfino al costo di creare fattispecie colpose, di illecito doloso, inesistenti.


Pietro Diaz :

Interferenze tra inammissibilità del ricorso per cassazione e prescrizione del reato

1. introduzione.

Dall’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988 a oggi, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono occupate più volte del rapporto tra inammissibilità dell’impugnazione e obbligo di immediata declaratoria delle cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p.. In particolare, si è chiesto alle Sezioni Unite di stabilire quale decisione sia prioritaria nell’ambito del giudizio di legittimità, allorché si ravvisi la contemporanea presenza di una causa d’inammissibilità del ricorso e di una causa di estinzione del reato. Quale deve dichiarare la Corte? La scioglimento del quesito non è di poco conto e involge, da una parte, considerazioni di politica criminale e di tutela dell’ordinamento, dall’altra, il principio fondamentale del favor rei. La scelta sulla priorità tra le due questioni, infatti, oltre ad incidere – come è evidente – sulla sfera di applicabilità dell’art. 129 c.p.p. (ispirata al principio de quo), interferisce in modo diretto sulle strategie difensive dell’imputato, “incentivandolo o meno alla proposizione di ricorsi dilatori, finalizzati a far maturare la prescrizione del reato”.

Senza celare che, in assenza di una norma che preveda un esplicito ordine di preferenza tra le due decisioni, una disciplina della questione affidata all’interpretazione giurisprudenziale presta il fianco all’accusa – non sopita dal richiamo alla teoria ermeneutica giusrealista – di sconfinare nelle prerogative riservate al legislatore[1]. Di qui la critica mossa da alcuni commentatori alle Sezioni Unite, a fronte della soluzione invalsa (di cui infra), di obbedire surrettiziamente agli “imperativi dell’efficienza e della lotta ai possibili abusi delle parti[2]. Invero, nella scelta rigoristica invalsa si riscontrano elementi funzionali all’obiettivo ivi inscritto (porre un freno alle “impugnazioni meramente dilatorie”), frutto dello sforzo creativo orientato verso il fine predetto, piuttosto che ancorati testualmente alla normativa vigente.

2. nel codice previgente

Prima di analizzare l’excursus giurisprudenziale menzionato, si ricorda che il rapporto controverso in esame fu oggetto di dibattito già all’epoca del codice Rocco, allorché si contendevano il campo, accanto ad una posizione intermedia, poi prevalsa, due tesi estreme: una “rigorista” e l’altra “liberale”[3]. Secondo la prima, la pronuncia d’inammissibilità era prioritaria e, per ciò, prevaleva sempre sull’accertamento delle cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p. (art. 152 del Codice Rocco): cfr. “il giudizio di merito richiesto dalla declaratoria delle cause di non punibilità in tanto sarà possibile in quanto siano già sussistenti i requisiti richiesti dalla legge per la valida costituzione del rapporto processuale; in quanto, cioè, l’impugnazione sia ammissibile[4]. Di contro, per la tesi liberale prevalevano le cause di non punibilità, in ossequio a un criterio di giustizia sostanziale e alla stessa lettera della disposizione codicistica, la quale prescriveva la dichiarazione in oggetto fino a quando il processo non fosse definito con una sentenza irrevocabile[5].

In posizione intermedia, si collocava l’indirizzo dottrinale, concepito dal Manzini, e poi ripreso dalla giurisprudenza di legittimità, anche odierna, che distingueva tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute dell’impugnazione. Solo le prime impedivano la declaratoria di prescrizione del reato, precludendo all’impugnazione di inibire il definitivo passaggio in giudicato della sentenza. Mentre le altre, concernendo vizi sopravvenuti del gravame e implicando un esame pur sommario degli atti processuali, non avrebbero ostacolato la declaratoria sopra cennata. Come anticipato, tuttavia, la distinzione tra inammissibilità originaria e inammissibilità sopravvenuta risale all’epoca del codice previgente, elaborata, dunque, in un regime processuale contrassegnato dal riparto di competenze tra giudice a quo e ad quem e dalla separazione tra il momento introduttivo del gravame (“dichiarazione”) e il momento di sviluppo argomentativo di esso (“motivi”). Alla stregua di tale separazione, l’atto d’impugnazione era invalidato ab origine solo dai vizi infestanti la “dichiarazione” (quale manifestazione della volontà di non acquiescienza alla pronuncia impugnata), i quali non impedivano il passaggio in giudicato della sentenza (impugnazione proposta da soggetto sprovvisto di legittimazione, ovvero avverso a provvedimento non assoggettato all’impugnazione proposta, dichiarazione non presentata nella forma, nel tempo e nel luogo prescritti). In tali casi, già esauritosi il procedimento, l’art. 152 c.p.p. Rocco (oggi 129) non avrebbe potuto applicarsi, con seguente dichiarazione dell’inammissibilità in via prioritaria[6]. Ove, invece, i vizi del gravame avessero colpito i “motivi” (omessi o irritualmente presentati), essendo ancora in corso il procedimento per effetto di una valida dichiarazione, “il giudicato penale si sarebbe prodotto solo quando l’impugnazione fosse stata dichiarata inammissibile  da parte del giudice ad quem, in base all’art. 209 c.p.p. [Rocco]”. Onde, “l’ordinanza che sanciva l’inammissibilità sopravvenuta del mezzo d’impugnazione aveva natura costitutiva ed effetto ex nunc[7]. Non si ravvisava, in tali ipotesi, alcun ostacolo insuperabile ad una declaratoria di eventuali cause di non punibilità ai sensi dell’allora vigente art. 152 c.p.p. Rocco. Stesso discorso per l’impugnazione proposta da soggetto carente di interesse e per gli specifici casi di inammissibilità del ricorso per Cassazione, vale a dire i motivi non consentiti o manifestamente infondati (art. 524 c.p.p. Rocco), tutti ritenuti cause sopravvenute, non preclusive, conseguentemente, della dichiarazione di non punibilità, concernendo i motivi e, dunque, “l’atto integrativo” del rapporto d’impugnazione[8].

3. nel codice vigente

Nell’attuale sistema processuale, con l’art. 581 c.p.p., scompare la distinzione tra dichiarazione e motivi, racchiusi ora in unico atto e soggetti ad identico termine per la presentazione. Le cause di inammissibilità dell’impugnazione sono ora tutte individuate, in via generale, dall’art. 591 c.p.p., il quale accomuna le ipotesi olim definite originarie o sopravvenute (carenza di legittimazione e di interesse, inoppugnabilità del provvedimento, inosservanza delle norme concernenti la forma, la presentazione, la spedizione e i termini di impugnazione, nonché il regime delle ordinanze emesse in dibattimento e la rinuncia), prescrivendo al comma 2 che il giudice dell’impugnazione, anche d’ufficio, dichiari con ordinanza l’inammissibilità dell’impugnazione e disponga l’esecuzione del provvedimento impugnato[9]. Alla stregua di tali premesse, non è parso vi fosse più ragione per accogliere nell’alveo delle cause originarie d’inammissibilità quelle sole ipotesi che viziano la dichiarazione del gravame. A rigore, invero, pressoché ogni inammissibilità sarebbe “originaria” (esclusa la rinuncia all’impugnazione). Pertanto, anche il discrimen causa originaria/causa sopravvenuta è parso desueto. Si è continuato, nondimeno, a discernere la natura originaria o sopravvenuta delle cause d’inammissibilità, ricercando un nuovo confine tra esse[10].

Nel solco di tale impostazione, si è ridata dignità alla distinzione in esame alla stregua dell’art 648 c.p.p., a mente del quale, oltre all’ipotesi delle “sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione” (comma 1), solo l’impugnazione tardiva colloca l’irrevocabilità della sentenza al momento del verificarsi della causa di inammissibilità. Quest’ultima, dunque, è originaria se riconducibile all’inosservanza del termine per impugnare o alla dichiarazione di inoppugnabilità della sentenza; sopravvenuta in tutti gli altri casi, ove l’irrevocabilità consegue non già alla sola verificazione della causa di inammissibilità, ma alla sua dichiarazione con provvedimento, a sua volta irrevocabile[11]. Pertanto, poiché fino al momento in cui la sentenza non sia definitiva, il processo non può considerarsi definitivamente concluso, “il giudice davanti al quale esso è pendente ha il potere-dovere, in presenza dei relativi presupposti, di pronunciare la sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 129 c.p.p.” (Cass., Sez I, 8 ottobre 1990). Come è stato sottolineato, il punto di forza di tale orientamento risiede nel richiamo all’unica norma del codice che esplicitamente considera il rapporto tra inammissibilità dell’impugnazione e irrevocabilità della sentenza. Nella porzione di tempo intercorrente tra impugnazione e declaratoria di inammissibilità, il processo è ancora in vita, onde il sopraggiungere della prescrizione del reato impone al giudice di dichiararla d’ufficio con sentenza[12].

4. plurimi interventi delle Sezioni Unite

Dalla suddetta tesi la dottrina si è discostata, poiché ritenuta conforme a “concezione meramente formale del giudicato”, incurante della figura del c.d. “giudicato sostanziale” (collocato al momento dell’insorgenza della causa di inammissibilità)[13]. Anche le Sezioni Unite della Cassazione respingono la soluzione rinvenuta nell’art 648 c.p.p.. La Corte, sulla scorta di tale assunto, inaugura la nota serie di interventi sull’uso strumentale delle impugnazioni,  incentrati sulla verifica della sussistenza o meno di una richiesta di esame sul merito del gravame. Nella prima pronuncia del 1994 (Cass., Sez Un., 11 novembre 1994), la Corte esclude da subito la rilevanza dell’art. 648 c.p.p., giacché “la disposizione in questione, come emerge dalla sua collocazione, è diretta a disciplinare il giudicato ed a segnare l’inizio della fase esecutiva, mentre è dalle norme che regolano il processo che deve trarsi la disciplina dei rapporti tra cause di inammissibilità e cause di non punibilità, al fine di stabilire quale tra esse debba prevalere”.

Si perviene così a quell’excursus giurisprudenziale che comprimerà, fino ad annullarla, l’operatività dell’art. 129 c.p.p.. Le riflessioni delle Sezioni Unite si focalizzano sul  momento in cui la decisione di merito debba ritenersi preclusa: ”quello in cui la causa di inammissibilità si verifica? O quello in cui la stessa è stata dichiarata? In altre parole, l’ordinanza di inammissibilità ha natura dichiarativa (con effetto ex tunc) o costitutiva (con effetto ex nunc)?[14] Quesiti risolti affidandosi, in principio, alla tradizionale separazione tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute, istituita questa volta alla stregua dell’esigenza o meno di un esame sul merito del ricorso.

Dapprima sono ritenute originarie tutte le cause di inammissibilità previste dall’art. 591 c.p.p. (con eccezione della rinuncia)[15]. Si tratta dell’impugnazione proposta da chi non è legittimato o non ha interesse, del gravame proposto contro provvedimento inoppugnabile e della violazione delle disposizioni degli artt. 581, 582, 583, 585 e 586 c.p.p., disciplinanti rispettivamente le modalità concernenti forma, presentazione, termini e spedizione dell’impugnazione, nonché i limiti di inoppugnabilità delle ordinanze. Per contro, sono reputate “sopravvenute” (quindi non preclusive dell’applicazione dell’art. 129 c.p.p.), giacché implicanti “un esame, a volte anche approfondito, degli atti processuali”, le cause di inammissibilità indicate nell’art. 606, comma 3 c.p.p. (motivi non consentiti, manifestamente infondati e per violazioni di legge non dedotte con i motivi d’appello). In particolare, si è osservato che “il discrimine tra manifesta infondatezza e (semplice) infondatezza dei motivi è incerto e pone il giudice di fronte a una scelta talvolta opinabile, che nondimeno agli effetti pratici non è fonte di conseguenze radicalmente diverse se concerne solo l’alternativa tra inammissibilità e rigetto del ricorso, mentre diventerebbe assai impegnativa se l’inammissibilità per manifesta infondatezza dovesse considerarsi preclusiva di un proscioglimento a norma dell’art. 129 c.p.p.” (Cass., Sez. Un., 11 novembre cit.; conforme Cass., Sez., Un., 24 giugno 1998, n. 11493).

Ulteriore pronuncia delle Sezioni unite (Cass., Sez. Un., 30 giugno 1999, n. 15) ha qualificato “originarie” “quelle cause che, attenendo ai requisiti formali dell’atto di impugnazione o ai presupposti legislativamente previsti per il valido esercizio del diritto di impugnazione, e non involgendo un giudizio di merito, impongono di adottare una decisione in limine, semplicemente dichiarativa della mancata instaurazione di un valido rapporto processuale, tanto da impedire l’inutile prosecuzione di un’attività comunque destinata a pervenire, a norma dell’art. 591 comma 4 c.p.p., anche a posteriori, ad un accertamento negativo della pendenza di un processo. In tale ipotesi si è, infatti, in presenza di un simulacro di gravame che il provvedimento che ne dichiara l’inammissibilità, per sua natura dichiarativo, rimuove dalla realtà giuridica fin dal momento della sua origine”. Dunque, oltre alle cennate ipotesi indicate nell’art. 591 c.p.p., sono ritenute (inammissibilità) originarie altresì: l’enunciazione di motivi non consentiti e la denuncia di violazioni di legge non dedotte con i motivi d’appello. In entrambi i casi si ravvisa il difetto ab origine dell’impugnativa. Nel primo, è carente un requisito necessario – data la natura di gravame a critica vincolata – a qualificare l’atto come ricorso per cassazione. Nel secondo, in forza del combinato disposto degli artt. 606, comma 3 e 609, comma 2, c.p.p., l’impugnazione è “inidonea a devolvere alla suprema Corte la cognizione di questioni già precluse”[16], e, quindi, a intaccare il giudicato già formatosi.

Rispetto all’orientamento precedente, residua, tra le cause di inammissibilità sopravvenute, la sola manifesta infondatezza dei motivi. In tale ipotesi – evidenzia la sentenza in esame – vi sarebbe una fattispecie peculiare in cui la natura preliminare dell’esame di inammissibilità dell’impugnazione non impedisce alla Corte di pronunciare l’estinzione del reato, “per insopprimibili ragioni logiche, solo in esito ad una delibazione sulla fondatezza della censura. Lo stretto legame con il merito rende perciò […] ininfluente la preclusione dell’esame di merito che – secondo i principi generali –deriverebbe dall’inammissibilità dell’impugnazione, perché l’inammissibilità in esame di per sé già si colloca sostanzialmente tra le statuizioni di merito”. Ed è, appunto, la collocazione all’interno del grado del processo per cassazione che, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., consente – secondo tale ricostruzione – di pronunciare l’estinzione del reato ove sia maturata la prescrizione.

Un ennesimo intervento delle Sezioni Unite rovescia tale assunto: “l’inammissibilità del ricorso per cassazione  dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. (nella specie la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata)” (Cass., Sez Un., 22 novembre 2000, n. 32). Anche la manifesta infondatezza del ricorso, quindi, si aggiunge all’elenco delle cause d’inammissibilità originarie, operanti ex tunc, cioè dal momento in cui l’atto di impugnazione è presentato e non da quello in cui è dichiarato invalido. Il gravame è considerato tamquam non esset ed il giudicato retroagisce allo scadere del termine per l’impugnazione della sentenza d’appello. Si nega, in sostanza, senza eccezioni, che sia configurabile un potere di decidere il merito nonostante l’inammissibilità del gravame. Ciò in quanto, il giudice, nel valutare l’ammissibilità dell’impugnazione, “statuisce in ordine al proprio potere di decidere il merito della questione”, non potendo darsi, in caso di accertamento negativo, impulso necessario alla trattazione del ricorso, mancando di forza propulsiva l’atto di gravame, incapace per tale ragione di accedere all’ulteriore stato e grado del processo che consentirebbe la declaratoria della prescrizione ex art. 129 c.p.p.. Solo apparentemente, pertanto, il vaglio di inammissibilità (in caso di manifesta infondatezza) verterebbe sul contenuto del gravame, essendo in realtà circoscritto alla verifica della valida instaurazione del giudizio di legittimità. Il giudice non interloquisce sul tema del procedimento, ma sulla conformità dell’atto al suo modello legale di riferimento (dato dall’art. 606 c.p.p.)[17].

Più precisamente, le Sezioni Unite osservano che “la coppia di valori ammissibilità-fondatezza, inammissibilità-infondatezza, così come delineata dalla legge, non ammette l’introduzione di zone grigie, cosicché la manifesta infondatezza, collocata nell’alveo dell’inammissibilità, resta in quest’ambito definita da dati di ordine qualitativo che ne provocano l’assimilazione – sul piano della struttura e della funzione – agli altri casi di inammissibilità previsti dalla legge”. In tutte e tre le figure menzionate dall’art. 606, comma 3 c.p.p. è riscontrabile un legame con la “tipizzazione delle vie di accesso alla Corte Suprema” in coerenza con il vigente giudizio di legittimità fondato su “un sistema di devoluzione rigorosamente prestabilito[18]. Onde, anche il controllo finalizzato a rilevare l’evidente inconsistenza delle argomentazioni formulate dal ricorrente si risolve in “una verifica preordinata alla constatazione dell’esistenza di censure non iscrivibili nel paradigma dell’art. 606, comma 1 c.p.p.”, verifica idonea, in caso di esito positivo, a privare il gravame “di quell’impulso necessario a originare il giudizio di impugnazione[19]. Alla luce di tali notazioni, quindi, non è tanto al grado di difficoltà della verifica che occorre fare riferimento, quanto “all’assenza di ogni scrutinio contenutistico del ricorso[20].

Riassumendo, si osserva come, prendendo le mosse dalla distinzione tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute, le Sezioni Unite siano pervenute a considerare le cause di inammissibilità come una categoria unitaria, da cui scaturisce un solo effetto: non poter decidere il merito del ricorso. Tale assunto è ribadito in successive pronunce delle stesse Sezioni Unite, ancora in tema di interferenze tra prescrizione del reato e inammissibilità del ricorso per cassazione. Si tratta, in particolare, della prescrizione maturata indi la sentenza di secondo grado (ma prima del ricorso: Cass., Sez. Un., 27 giugno 2001, n. 33542), e della prescrizione maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza d’appello (ma non dedotta dalla parte né rilevata dal giudice: Cass., Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 23428). In coerenza con l’orientamento sopra esposto, entrambe le decisioni, sul presupposto dell’inammissibilità (per violazione del criterio della specificità dei motivi) del ricorso per Cassazione, negano che l’intervento della prescrizione – quale che sia il momento in cui esso si realizzi – possa farsi valere ai sensi dell’art 129 c.p.p.. Difatti, stante l’inammissibilità del ricorso e posto che essa “paralizza i poteri del giudice a partire dal momento in cui si verifica” (anziché dal momento in cui viene dichiarata), non vi sarebbe  possibilità – da parte della Corte di Cassazione – di dichiarare l’estinzione del reato ex art. 129, sia che questa succeda al verificarsi della causa d’inammissibilità, sia che la preceda[21]. Conseguendo ciò, dicevasi, all’intrinseca incapacità dell’atto invalido di accedere davanti al giudice dell’impugnazione[22] (i cui poteri di decidere il merito sono, appunto, “paralizzati”), onde la sentenza impugnata, se aggredita con gravame inammissibile, non potrebbe inibire il formarsi del giudicato (sostanziale).

Detto orientamento è confermato, da ultimo, nella recente Cass., Sez Un., 25.03.2016, n. 12602: “L’inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la rilevabilità d’ufficio della prescrizione del reato maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, non eccepita nel grado di merito e non rilevata da quel giudice né dedotta con i motivi di ricorso”. La pronuncia or detta ribadisce, in proposito, che “solo dopo aver verificato l’ammissibilità dell’impugnazione il Giudice possa decidere nel merito del processo; viceversa, qualora sia dichiarata l’inammissibilità dell’impugnazione, non può aver luogo alcuna pronuncia sul merito”, giacché saremmo “di fronte ad un atto processuale invalido e, quindi, inidoneo ad attivare il corrispondente rapporto processuale”. Non potrebbe, per ciò, riconoscersi alla prescrizione alcuna effettività sul piano giuridico, rimandando la stessa relegata “nella categoria dei fatti storicamente verificatisi ma giuridicamente indifferenti per essersi già formato il giudicato sostanziale” (cfr. Cass., Sez Un. n. 12602 cit.).

5. conclusioni critiche

A chiosa e commento dei cennati interventi, deve riprendersi quanto accennato all’inizio, a proposito del timore che la descritta visione del rapporto tra inammissibilità e art. 129 c.p.p. sia animata più dalla esigenza (rectius, volontà) di conseguire un certo risultato, frutto della spinta eteronoma dell’ideologia, che da una coerenza interna all’ordinamento processuale. Perplessità che nasce dalla dichiarata finalità – manifestata nelle sentenze delle Sezioni Unite – di evitare che la potestà d’impugnare sia esercitata “come strumento, non soltanto per procrastinare la formazione del titolo esecutivo, ma anche per conseguire effetti di favore di ordine sostanziale in presenza di un gravame soltanto apparente. In un regime in cui al favor impugnationis (quale ricavabile da numerosi precetti del codice di rito) fa da rigoroso contrappunto l’esigenza di conformare l’atto di impugnazione ai requisiti prescritti dalla legge” (cfr. Cass. Sez Un.,, n. 32/2000, n. 23428/2005); “[Le ipotesi di inammissibilità] sono, per lo più, espressione di un tatticismo difensivo a fini dilatori, che mira a procrastinare il passaggio in giudicato formale della sentenza , nella prospettiva spesso di propiziare la scadenza dei termini di prescrizione” (cfr. Cass. Sez Un, n. 12602/2016).

La preoccupazione di arginare “ricorsi meramente dilatori” ha propiziato il consolidamento della tesi rigoristica, volta a scoraggiare condotte “opportunistiche[23]. Nondimeno, il rischio insito in un approccio siffatto è la forzatura ermeneutica del dato normativo. Rischio, quello de quo, di cui la stessa Corte di legittimità è conscia, allorché riconosce che nel sistema processuale “v’è la contemporanea presenza di norme che impongono al giudice obbligatorie declaratorie dal contenuto antitetico, senza stabilire alcun ordine di priorità tra le stesse pronunce” (cfr. Cass., n. 12602 cit.). Al riguardo, non si comprende, ad esempio, la facilità con cui si sia scartata la soluzione fondata sull’art. 648 c.p.p., unico appiglio esplicito al codice di rito, a favore di una nozione di giudicato sostanziale, “priva di chiara legittimazione normativa[24]. Per contro, asserire che il giudicato si formi automaticamente con l’insorgere della causa di inammissibilità e non al momento della sua dichiarazione – con ordinanza – da parte del giudice, è il risultato di una scelta normativa che dovrebbe, per ciò, ancorarsi al diritto positivo. In ogni caso, anche a voler trascurare la soluzione offerta dall’art. 648 c.p.p., si osserva che le Sezioni Unite non hanno approfondito il tema della definizione dei “poteri cognitivi del giudice del gravame allorché è chiamato a verificare l’ammissibilità dell’impugnazione[25].

Se è vero, infatti, che le parti hanno l’onere di rispettare determinati requisiti di ammissibilità al fine di introdurre il procedimento di impugnazione e di far si che operi l’effetto devolutivo[26], è altresì vero che la violazione dei requisiti de quibus preclude unicamente l’esame del contenuto del gravame, il quale postula l’impulso di parte (e quindi dell’assolvimento del suddetto onere), ma non involge, inibendola, l’efficacia di una norma di favore come quella prevista dall’art. 129 c.p.p., espressamente applicabile d’ufficio e la cui attuazione non implica alcun esame sul merito dell’impugnazione[27]. Nessuna norma processuale supporta tale assunto preclusivo che, nondimeno, le Sezioni Unite, nelle  pronunce cennate, hanno mostrato di considerare pacifico, [in]adempiendo alla funzione nomofilattica con esiti che non possono certo dirsi ispirati a criteri di giustizia, se non per antifrasi.

D’altro canto, se “inammissibilità” è espressione ellittica di “inammissibilità nel merito” ed essa è “la qualifica giuridica di quella domanda che non ha attitudine a vincolare il giudice ad emettere una pronunzia sul merito di essa” (Delogu), allora vi è da chiedersi se non siano ravvisabili due distinti rapporti processuali, quello relativo al merito dell’impugnazione, ex art. 609, co. 1 c.p.p. (istituito da un valido atto di impugnazione) e quello (ispirato al principio del favor rei) relativo alla verifica delle questioni rilevalibili d’ufficio in ogni stato e grado del processo, ex art. 609, co. 2 c.p.p. (istituito da un tempestivo atto di impugnazione). Desta perplessità, in proposito, l’abbandono radicale della distinzione tra dichiarazione e motivi dell’impugnazione (vd. supra), la quale (distinzione), seppur scomparsa dalla struttura materiale dell’atto, non pare sia scomparsa pure concettualmente da esso. Invero, se con la richiesta di impugnazione inclusa nell’atto de quo si manifesta (ora implicitamente) la volontà di non prestare acquiescienza al provvedimento impugnato, rilevante alla stregua degli effetti del c.d. giudicato formale (ex art. 648 c.p.p.), con l’enunciazione dei motivi si esprimono le specifiche ragioni per cui la decisione sarebbe ingiusta o contra legem, vincolando la Corte alla pronuncia su essi. A tale stregua, l'(eventuale) mancata instaurazione del rapporto processuale sui “motivi” non inibisce la formazione del rapporto sulle cennate questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo, evitando con ciò l’incogruenza (e l’iniquità) dell’inclusione della prescrizione “nella categoria dei fatti storicamente verificatisi ma giuridicamente indifferenti“. Non vi sarebbe, in tal senso, alcuna (illogica) dissociazione o scarto tra efficacia estintiva (del decorso del tempo) e sua realizzazione, situandosi, invero, l’effetto (estintivo) de quo, nella categoria modale dell’effettività, nella quale il relativo effetto sorge nel preciso momento in cui si conclude il fatto giuridico condizionante (contrariamente alle categorie modali, prospettiche, della necessità e della possibilità, ove vi è dissociazione tra effetto e sua realizzazione). In altre parole, il rigore logico del c.d. principio di simultaneità giuridica (Falzea), fondato sulla corrispondenza biunivoca tra perfezione della fattispecie condizionante (decorso del tempo) ed efficacia condizionata (estinzione del reato per carenza dell’interesse dello Stato a esercitare la pretesa punitiva), non (ammette o) lascia spazio alla configurazione della  verifica sull’ammissibilità della cognizione del ricorso (“cognizione dei motivi propostiex art. 609, co. 1 c.p.p. ), quale fatto impeditivo di pronuncia che attiene a profilo distinto, cioé quello, ripetesi,  delle “questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado” (ex artt. 129, 609, co. 2 c.p.p.).

Rispetto a ciò che è lecito enucleare dalla legge vigente, l’interpretazione giurisprudenziale introduce, per ciò, un asserto abusivamente prescrittivo (rectius preclusivo)[28], interpolando la legge suddetta (“l’inammissibilità del ricorso osta all’applicazione ex officio dell’art 129 c.p.p.”). Senonché, disancorato, questo asserto, dal dato normativo positivo (cioé in carenza delle relative condizioni di verità), unico riferimento in grado di attribuire efficacia giuridica alle proposizioni de quibus, non pare suscettibile di essere accolto nell’ordinamento penale fino a che il legislatore non dica (rectius prescriva) che l’efficacia dell’art 129 c.p.p. (norma di favore applicabile d’ufficio) postuli esame del merito dell’impugnazione. In altre parole, la pronuncia di inammissibilità del ricorso non potrebbe essere fatto giuridico (processuale) dotato della pretesa efficacia preclusiva, o meglio, sarebbe fatto (processuale), ma non giuridico (e per ciò non condizionante) rispetto all’effetto preclusivo de quo, in assenza di norma che tale effetto gli conferisca. Anzi, essendovi norma che, per contro, mantiene separati il profilo del merito dell’impugnazione (art. 609,co. 1 c.p.p.) da quello delle questioni (comunque rilevabili) espressione del favor rei (art. 609, co. 2 c.p.p.), la cennata preclusione sarebbe non solo surrettizia, ma addirittura incompatibile con il vigente ordinamento.  In ogni caso, le relative questioni, dicevasi, sono rimaste inesplorate (o affrontate apoditticamente), benché costituissero (e costituiscano), tuttavia, il presupposto indefettibile dell’esito giurisprudenziale, il quale, confinato in un contesto normativo che sul punto non offre spunti ermeneutici (o ne offre addirittura di contrari), non potrebbe, ripetesi, trovare accoglienza nell’ordinamento vigente, onde pervenire al risultato ricercato. Per questi motivi, si ritiene illegittimo l’approdo rigoristico della Corte di Cassazione, il quale fornisce un’interpretazione uniforme, ma surrettizia, della legge, oltre che contraria al principio del favor rei, causa di effetti nefasti in punto di coerenza sistematica, tanto più gravi perché conseguiti in vista di un supposto fine etico.
Carlo Manca

BIBLIOGRAFIA
Carnesecchi S., Gli ermellini: addio tattiche dilatorie, in D&G, 2006, p. 45.
Ciavola A., Le Sezioni Unite superano la tradizionale distinzione tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute e pongono un importante freno alla prassi dei ricorsi manifestamente infondati e pretestuosi, in Cass. Pen., 2001, p. 2988.
Delogu, Contributo alla teoria dell’inammissibilità nel diritto processuale penale, Milano, 1938, p. 51.
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Marafioti L., Selezioni dei ricorsi penali e verifica d’inammissibilità, Torino, 2004.
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Presutti A., Ancora un intervento delle Sezioni Unite in tema di inammissibilità della impugnazione e declaratoria ex art 129 c.p.p., in Cass. Pen., 2000, p. 843
Scella A., Il vaglio d’inammissibilità dei ricorsi per cassazione, Torino, 2006.
Varzì, Nolte, Rohatyn, Logica, Milano, 2004, p. 5,

GIURISPRUDENZA CITATA
Cass., pen. Sez. I, 8 ottobre 1990.
Cass., pen. Sez. Un., 11 novembre 1994.
Cass., pen. Sez. Un., 24 giugno 1998, n. 11493.
Cass., pen. Sez. Un., 30 giugno 1999, n. 15.
Cass., pen. Sez. Un., 22 novembre 2000, n. 32.
Cass., pen. Sez. Un., 27 giugno 2001, n. 33542.
Cass., pen. Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 23428.
Cass., Pen., Sez Un., 25.03.2016, n. 12602.

[1]                      Scella, Il vaglio d’inammissibilità dei ricorsi per cassazione, Torino, 2006, pp. 135-136, secondo la teoria giusrealista dell’interpretazione, anche il giudice più fedele alla legge non può, in qualche senso, non creare diritto. Di qui l’aporia per cui il giudice non deve creare diritto, eppure non può non crearlo
[2]                      Marafioti , Selezione dei ricorsi penali e verifica d’inammissibilità, Torino, 2004, p. 152.
[3]                   Ciavola, Le Sezioni Unite superano la tradizionale distinzione tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute e pongono un importante freno alla prassi dei ricorsi manifestamente infondati o pretestuosi, in Cass. Pen., 2001, p. 2988.
[4]                    Ibidem.
[5]                    Ibidem; Marafioti, op.  cit, p. 135.
[6]                    Così in Cass., Sez. Un., 22 novembre 2000, n. 32
[7]                   Orlandi, Se la condanna è per un reato prescritto, in D&G, 2005, p. 58; va ricordato che il giudice a quo, pur in presenza di una causa sopravvenuta dell’impugnazione da lui rilevabile (omessa presentazione dei motivi, presentazione dei motivi in violazione delle prescrizioni concernenti la forma il tempo ed il luogo, omessa esecuzione delle notificazioni prescritte a pena di decadenza, rinuncia all’impugnazione), aveva il dovere di rimettere gli atti al giudice ad quem, ai sensi dell’art 208 del Codice Rocco, nel caso in cui dovesse trovare applicazione l’art 152 c.p.p. del 1930.
[8]                    Cass., Sez. Un., 22 novembre 2000, n. 32, cit.
[9]                    Ibidem; “per i motivi manifestamente infondati e per quelli non consentiti, il legislatore del 1988 ha, poi, soppreso la disposizione che conferiva al difensore la potestà di far trattare il ricorso in pubblica udienza”.
[10]                  Scella, op. cit., pp. 138-139.
[11]                  Ibidem; Orlandi, op. cit., p. 59.
[12]                Orlandi, op cit., p. 61; Presutti, Ancora un intervento delle Sezioni Unite in tema di inammissibilità della impugnazione e declaratoria ex art 129 c.p.p., in Cass. pen., 2000, p. 843.
[13]                  Ciavola, op. cit., p. 2990.
[14]                  Orlandi, op cit. p. 62
[15]          Anche il vizio derivante dalla cosiddetta genericità dei motivi viene attratto nella sfera delle cause di inammissibilità originarie, facendosi leva sull’art. 581 lett. c) c.p.p.. Va detto che le Sezioni Unite sembrano individuare nell’art. 581 la linea di confine tra cause originarie e cause sopravvenute. “Ma resta il fatto che nella successiva evoluzione giurisprudenziale il richiamo è stato inteso come operato all’art. 591 c.p.p.”, così Scella, op. cit., pp. 140-141 (nota 94); Marafioti , op. cit, p. 139.
[16]                  Scella, op. cit., pp. 143-144.
[17]              Carnesecchi, Gli ermellini: addio tattiche dilatorie, in D&G, 2006, p. 45; Scella, op. cit., pp. 145-147; Orlandi , op. cit., p. 62.
[18]                  Cass., Sez. Un., 22 novembre 2000, n. 32, cit.
[19]                  Scella, op. cit., p. 147.
[20]        Cass., Sez. Un., 22 novembre 2000, n. 32, cit., in cui si precisa che, frequentemente, la manifesta infondatezza “si traduce nella proposizione di censure caratterizzate da evidenti errori di diritto nella interpretazione posta a sostegno del ricorso, il più delle volte contrastate da una giurisprudenza costante e senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l’opposta tesi, ovvero invocando una norma inesistente nell’ordinamento”
[21]                   Orlandi, op. cit., p. 63.
[22]                   Cass., Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 23428
[23]             Punta su questo aspetto Marafioti, op. cit., p. 141 ss.; Nega la soverchia influenza di finalità anzidetta Scella, op. cit., p. 148, secondo il quale “si tratta di un orientamento giurisprudenziale capace di condurre a esiti altrettanto apprezzabili pure laddove l’impugnazione inammissibile non sia stata proposta a fini dilatori, nell’intento di ottenere la prescrizione. È quanto avviene, ad esempio, nel caso di prescrizione maturata prima della pronuncia della sentenza d’appello, ma non rilevata né dedotta nel corso del medesimo giudizio di secondo grado”(Cass., Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 23428, cit.)
[24]                  [24] Marafioti , op. cit., p. 142.
[25]                  [25] Ciavola , op. cit., p. 2992.
[26]                  [26] Ibidem.
[27]                  [27] Marafioti, op. cit., pp. 142-143.
[28]        Varzì, Nolte, Rohatyn, Logica, Milano, 2004: “la distinzione tra un’asserzione (o una proposizione) e un enunciato usato per esprimerla è importante. Un enunciato può essere ambiguo o dipendente dal contesto, e può quindi esprimere una qualsiasi di due o più asserzioni – anche asserzioni che hanno valori di verità opposti”

Sul reato di omesso versamento di imposta

1. Sull’autore del reato di omesso versamento di imposta

2. sulla confiscabilità ( e sequestrabilità) dei beni dell’amministratore o del liquidatore di società di capitali,  per inadempimento di questa;

3. sulla legittimità del sequestro preventivo in materia, e sulla rimessione della individuazione dell’oggetto della confisca (o del sequestro previo ) all’organo esecutivo (PM);

4. su una possibile retroattività della applicazione  della legge 144/07

Sull’autore del reato di omesso versamento di imposta

1. nel  reato di omissione propria (quello ex art 10 ter D.Lvo 74/2000) , se l’adempimento dell’obbligo (di agire) potrebbe  avvenire (efficacemente)  in ogni momento,  di una parte di tempo  (fino ad un termine  previsto dalla  norma obbligante), allora in ogni momento, di quella parte di tempo,  si compie omissione (benchè,  questa, generalmente, rilevi,  giuridicamente,  all’avverarsi del termine dell’adempimento);

1.1 tanto che (è ritenuto comunemente)  (quel)la omissione  potrebbe assumere forma di “atti” di  delitto tentato , ex  art 56 cp : quando, l’obbligato ad agire, li abbia preordinati ad essa, essi siano “atti idonei….” etc. ( art 56.1 cit);

1.1.1 ed essi  potrebbero essere perseguiti,  al titolo del reato  or detto;

1.2 o quando, l’obbligato ad agire,   si sia  posto nella condizione di non potere adempiere all’avverarsi del termine;  allora  ( è ritenuto comunemente) l’ omissione  sarebbe  eseguita,  prima del   termine (forse, anche quando,  altri,  adempia in tempo);

1.2.1  dunque, omittente, nel reato de quo,  è l’obbligato ad  adempiere nella parte di tempo sub 1 (e, come detto,  potrebbe, egli,   divenire giuridicamente tale,  perfino prima dell’avverarsi del termine);

1.3 ora, se  costui esistesse, quale inadempiente all’obbligo di versamento  di imposta nella parte di tempo prevista (ma vd infra sub 1.3.1 ),  e non corrispondesse a chi fosse investito dell’obbligo ( se ne fosse investibile: vd sub 1.2 ) in prossimità  della scadenza del termine del versamento dell’imposta ;

1.3.1 e che ne fosse investito nel momento in cui la omissione era eseguita da altri:

come, ovviamente,   non potrebbe  commetterla prima, della investitura,  così non potrebbe commetterla dopo,  perchè non (ri)commettibile,  la omissione commessa, per quanto  sub 1.2 (ed alla condizione sub 1.3.2), o   perchè:

1.3.2 investito,   dell’obbligo di adempiere,  nel momento in cui sia   divenuto impossibile l’adempimento ( perché, questo,   avrebbe richiesto, in concreto, adeguata preparazione monetaria, se non   opportuni  tempestivi accantonamenti… inattuati dal precedente obbligato, inattuabili dal successivo);

1.4  questa impossibilità, se non escludesse la sussistenza del fatto (di omissione di adempimento di un obbligo),  come all’opposto  reputa la migliore teoria del “fatto”,  includerebbe  “forza maggiore” nella commissione di esso (che, ex art 45 cp, non permette di ravvisare responsabilità per reato);

1.4.1  quanto sopra,  d’altronde, pare stimolare la illazione teorica, per cui, nella successione di obbligati all’adempimento,  è autore dell’omissione  chi lo fosse stato  per il tempo della possibilità di esso;

sulla confiscabilità ( e sequestrabilità) dei beni dell’amministratore o del liquidatore di società di capitali,  per inadempimento di questa;

ove

2.  il debito di imposta  gravi la società;

2.1  dal suo inadempimento tragga  profitto la società;

2.2  la confisca “per equivalente” reprima punitivamente  (è ritenuta comunemente  “sanzione penale”) quel profitto ,  essa non potrebbe cadere che sui beni della società (aumentati  da esso) ;

2.3 se, essa,  cadesse sui beni  degli organi suddetti, cadrebbe su un estraneo al profitto  (e dunque ad un elemento del reato), su un reo formale (in effetti organo della società,  agente penalmente in vece della società,  che  penalmente “non   delinque”), (reo) di reità sostanziale (davanti il diritto tributario, fiscale…) attinente soltanto la società;

2.4 e se fosse vero che la confisca (in parola) non potrebbe colpire l’illecito tributario della società (ex D.lvo n. 231/01),  è  inspiegato come  potrebbe colpire il suo organo (tanto che la confisca  è comunemente  ammessa , a colpire la società, quando questa sia “fittizia”, sia solo una parvenza,   del suo gestore: è ammessa, cioè, nel caso di reità –anche – formale, della società, assorbita nel suo gestore;

2.5 organo il quale, dopo tutto, (tornando a sub 2.3) essendo colpito,  con la sanzione repressiva dell’ingiusto profitto, benchè estraneo a questo, sarebbe  “estraneo” al reato che lo genera;

sulla legittimità del sequestro preventivo in materia, e sulla rimessione della individuazione dell’oggetto della confisca (o del sequestro previo ) all’organo esecutivo (PM);

3. i decreti di  sequestro preventivo volti alla confisca “per equivalente”, non  declinano, generalmente, il proprio potere;

3.1 ma il sequestro ex art 321.2  cpp è dirigibile alla “confisca” facoltativa (“…è consentita…”): mentre quella di specie è obbligatoria (“…è sempre ordinata…”), ex art 322 ter cp; ed il richiamo che l’art 1 L 244/07 fa, di questo,  è alla confisca obbligatoria, non a quella facoltativa;

3.2 quella facoltativa,  peraltro, insieme a quella obbligatoria dello stesso genere (art 240 cp), non esce (concettualmente) dalla “misura di sicurezza”; laddove quella obbligatoria di specie è entrata presto (concettualmente) nella “sanzione penale” (vd sub 2.2);

3.2.1  ed è certo meno facile concepire la cautela, ex art 321 cpp, di questa (sanzione),  alle condizioni nelle quali sarebbe concepibile, concepita,  la cautela di quella (misura);

3.2.2. condizioni che, d’altronde,  suppongono la previsione della cosa oggetto della cautela (cioè, che si sappia prima e subito quale essa sia),  come segnala l’art 321.1 cpp, e segnala l’art 240 cp (insieme al sottosistema processuale del reato che abbia generato o usato le cose or dette);

3.2.3 laddove, nel sequestro di specie, è esclusa quella previsione; è esclusa perfino la visione,  della cosa, se, il sequestrante, rimette al PM la completa individuazione d’essa;

3.3 e che l’art 104 disp att,  cpp (talora richiamato dai decreti) segnali che il sequestro preventivo si esegue al modo del sequestro probatorio, lungi dal legittimare quello di specie, lo delegittima, perché il sequestro probatorio,  al quale quello preventivo è assimilato, postula la previsione della cosa oggetto,  che, per contro,  il sequestro di specie esclude;

3.4 d’altronde, ex art 322 ter.3 cp, il giudice, non il PM,   individua la cosa oggetto della confisca (diretta o)  “per  equivalente”, perfino se fosse cosa fungibile (somma di denaro);

3.5 peraltro, le sanzioni penali, come (in fase genetica) vivono in riserva di legge (art 25.2, 42.2.3,  cost, art. 1 cp) in fase applicativa vivono in riserva di giurisdizione  (artt. 13 ss ,  111 s cost, e, ex multis, art 322 ter cit medesimo);

3.5.1 per cui,  se il giudice avesse  potere di sequestro preventivo in direzione della confisca “per equivalente” ( per ammetterlo, oltre che disattendere quanto sopra, occorrerebbe tralasciare che la “equivalenza” della cosa – al profitto al prezzo….del reato- di specie, non è determinabile senza il ”contraddittorio”- veicolabile dalle produzioni documentali dell’accusato- con l’Agenzia delle Entrate,  contraddittorio atto alla determinazione, del debito da equivalere in confisca,  solo a seguito dei procedimenti,  anche transattivi, inerenti), non potrebbe non avere dovere di (completa) individuazione della cosa suo oggetto;

su una possibile retroattività della applicazione  della legge 144/07

4. se la sanzione penale (confisca “per equivalente”) in relazione al reato ex art 10 ter cit,  introdotta dalla legge 24 12 2007/ 144, successiva all’anno di imposta 2007 (nel corso del quale sia sorta ed  evoluta la omissione di adempimento , dell’obbligo di versamento), fosse applicata (anche prodromicamente, mediante il  sequestro de quo ) a quel periodo, potrebbe esserlo  retroattivamente (contro i principii di irretroattività, della legge penale incriminatrice e della sue sanzioni, ex  artt 25 cost, 1 cp), almeno rispetto al periodo (2007), pur se non a quello, dell’anno successivo, nel quale maturi il termine dell’adempimento (27 12…).

4.1. E se fosse discutibile  che,  nel reato di omissione propria, la posteriorità  della legge al momento genetico dell’obbligo e dell’obbligato, e del  periodo di   inadempimento d’esso, cioè,  l’anteriorità,  della legge,   soltanto al momento evolutivo d’essi, non comporti sua applicazione retroattiva, ove sia riportata al primo momento:

4.2. sarebbe indiscutibile soltanto supponendo la “permanenza”, della condotta di omissione, fino al termine dell’adempimento, permanenza tuttavia insupponibile  quando la omissione sia eseguita  prima del termine, e sia impossibile l’adempimento dopo essa e prima di questo ( e sempre che,  quella esecuzione,  renda giuridicamente ammissibile l’altrui adempimento: vd sopra sub 1.3.1) ; soltanto supponendo essa, e con essa, permanenza quella,  ammettendo,  la legge successiva,  a innovare sulla condotta iniziata con la precedente.

4.3. Peraltro, decorso il termine dell’adempimento nella omissione di questo, essa sarebbe, nonché eseguita, consumata, non sarebbe in alcun modo reiterabile in relazione a successivi   termini di adempimento.

Pietro Diaz

Tribunale di Sassari- Collegio penale- pres. Fanile, ordinanza di ammissione della costituzione di PC di Figc… sulla legittimazione ad agire di Figc nel processo per reato di truffa in danno del CONI…

1. Una paralogia tende a  fagocitare,  in prassi, la norma giuridica, divulgando  che:

1.1 poiché l’art. 74 cpp ammette alla azione civile in processo penale il “soggetto al quale”  il reato abbia “recato danno”, non  la “persona”, alla quale il reato abbia fatto altrettanto, ammessa in vece dall’abrogato art. 22 cpp, allora:

 1.2 il  primo sarebbe altro, dalla seconda, e (per ciò) avrebbe  un diritto altro o ulteriore o diverso, da  quello della seconda, tale (altro ulteriore diverso)  anche da quello  difeso dal reato, del quale senz’altro  è titolare la “persona” (per ciò “offesa” dal reato: art. 120 cp );

2. è certo che la divulgazione,  prima di esordire,  né si è interrogata  sul senso e le ragioni di quelle variazioni nominali (dall’art. 22 all’art. 74 citt.), né, tanto meno,  ha prestato ascolto ai LLPP dell’art. 74; se avesse compiuto l’uno o l’altro atto,  avrebbe tosto appreso che, la variazione lessicale  era stata studiata:

 2.1  per risolvere l’antica disputa se “persona” potesse essere, oltre quella fisica – individuale, quella collettiva non giuridica (potendo certamente esserlo quella giuridica, “persona giuridica”) e si era deciso di chiamarla “soggetto” perché meglio generalizzante, comprensivo,

2.2 e per risolvere l’antica disputa se  “erede” (dell’art. 22) potesse essere anche il “successore” della persona collettiva giuridica o non giuridica (come si sforzava di sostenere, al limite del lessico, la giurisprudenza del tempo), e si era deciso di chiamarlo  “successore universale”, perché meglio generalizzante, comprensivo.

2.3 e, quando lo avesse appreso, avrebbe evitato di  alienarsi  alla interpretazione ed alla norma; o di farlo con rimarcabili eccessi.

3.   ad esempio,  si è giunti  a rilevare che tra i “soggetti” del processo (si suppone quelli del Lib.  I  TT. I ss cpp), altra sarebbe la “persona offesa”,  altra  la “parte civile”, per cui, questa non si identificherebbe in quella, potrebbe identificarsi in altro soggetto;

3.1 il quale quindi, necessariamente, non avrebbe le facoltà e i diritti (art. 90 ss cpp) della persona offesa (talora, perfino, garantiti da sanzioni processuali di nullità e di inutilizzabilità, a segno della loro rilevanza), non li avrebbe nè rispetto al “procedimento” né rispetto al “processo”!

3.2 contemporaneamente la “parte civile”, che dovrebbe esordire nel “processo” preparandosi nel “procedimento”, preparare quello passando per questo, non  discendendo   da quella “persona”,  essendo “soggetto” altro dalla persona offesa, dovrebbe venire  al processo uscendo dal nulla, entrare nell’agone impreparata, gettarvisi temerariamente….;

3.3 effetto che non pare apprezzabile, raziocinante:  o  la parte civile, soggetto al quale il reato ha recato danno, è persona offesa, e si identifica in questa,  oppure sarebbe ospite, in vece che attore, del processo penale:  (esemplificando) non avrebbe diritto a citazione,  né all’eventuale giudizio preliminare né a qualsiasi giudizio di merito (per “citazione diretta”, “presentazione” dell’imputato a giudizio direttissimo…); conseguentemente, quando  si affacciasse ai  giudizi, lo farebbe per  “intervento volontario” ( tuttavia,  processualmente previsto solo per il  responsabile civile):  ignoto al processo perché ignoto al diritto,  penale, che va al processo soltanto con soggetti noti, a sé stesso, e tali in quanto siano espressi nelle sue   fattispecie incriminatrici,  sul lato della soggettività attiva e su quello della soggettività passiva (eventualmente plurima, in fattispecie “plurioffensiva”), purchè espressamente tale, anche se per fattispecie accessoria  circostanziale [si pensi al proprietario dell’abitazione nella quale sia derubato un abitante: artt. 624, 625 cp)]; espressamente tale,  a scongiurare immigrazioni clandestine, clandestini, “soggetti passivi” ignoti alla fattispecie penale improvvisamente materializzantisi  in  quella processuale in  (mentite) spoglie di soggetti ai quali il reato avrebbe recato danno!);

 3.3.1 ed evitato il quale (effetto)  riprende a consonare ( penalisticamente),    che   chi stia nella  soggettività passiva del reato perché in rapporto  giuridicamente qualificato col  bene   difeso,    è  persona offesa;   che  è “persona offesa” il soggetto al quale il reato ha  recato danno;  che è parte civile chi agisca civilmente in processo penale  per la restituzione da,  o il risarcimento di, esso;

3.4 nei limiti soggettivi delle fattispecie incriminatici, limiti, d’altronde, anche della cognizione del  giudice penale, che è ammesso a conoscere la fattispecie incriminatrice sia nella parte attiva, quella che ha commesso il reato, sia nella parte passiva, quella che ha subito il reato, e quando queste due parti si soggettivassero, come per lo più accade (esclusi i reati senza offesa o ad offesa soggettivamente indeterminata: offesa del “pubblico”, vd infra), egli, dicevasi,  sarebbe ammesso a conoscere di costoro, non di altri, perché di altri, e dell’altro relativo, conoscerebbe altro giudice, di altro sub-ordinamento, di altra giurisdizione ( se la parte passiva, con la sua soggettività, si protendesse oltre l’ambito di offensività della fattispecie penale, cadendo  in altre fattispecie, solo il giudice di queste, non di quella, sarebbe competente).

3.5 d’altronde, le ammissioni al procedimento ed al processo penale sono determinate dal pubblico ministero, che ha obbligo di ammettere l’ammissibile, a pena di nullità del subprocedimento inammettente (con la conseguenza che le ammissioni  sono fatte riparatoriamente  anche dal giudice che annulli quel subprocedimento o che “rinnovi” una citazione, su eccezione di parte o di ufficio) e di non ammettere l’inammissibile (con la stessa conseguenza, a termini più o meno invertiti).

3.6 per conseguenza starebbero dalla parte passiva del reato, e attiva del procedimento o del processo coloro che fossero lì ubicati dal pubblico ministero,  il quale,  peraltro,  non potrebbe appellarli se non  persone offese o loro  successori. Appellarli  così fin dalla iscrizione nel registro delle notizia di reato, su per gli atti adducenti alla imputazione, fissandoli qui  insindacabilmente, sia in quanto destinatari che in quanto emissari di atti processuali, destinatari tutti  d’altronde di posizioni giuridiche passive ed attive,  animanti  e formanti la intera vicenda processuale;

4. ciò stigmatizza anzitutto la pretesa di Figc,  ignota quale soggetto passivo dell’evento alla imputazione ed al reato in capo G, tanto da essere nota ad esso quale soggetto passivo della condotta (generativo, appunto,  di danno ricadente su altro soggetto, il Coni), ignota come tale financo alla fattispecie incriminatrice astratta, in art. 640 bis cp, che conosce soltanto Stato ed Enti pubblici (diversi da esso), e che esattamente lo  ha indicato al PM quale elemento  della (soggettività passiva della imputazione),

4.1  mentre Fi stessa, nell’atto di costituzione, si qualifica come associazione con  personalità giuridica di diritto privato, cooperante l’attività dell’Ente pubblico ma non pertanto assumentene la qualità soggettiva e funzionale, e neppure condividente essa ( i tentativi di profilare una accessorietà soggettiva  e funzionale mutuativa delle qualità dell’Ente acceduto non conseguono il fine per riconoscimento tacito dell’attore medesimo),  in somma Figc, associazione privata di diritto privato non ente pubblico di diritto pubblico, che tuttavia pretende di essere (non piè eloquentemente che) “danneggiato materiale” e “non materiale e/o di immagine”, e di agire quale parte civile nel processo per esso (d’altronde, che il reato contro il patrimonio de quo difenda l’”immagine” del leso patrimonialmente, al pari del reato contro la persona, è asserto  che marca platealmente  l’inaderenza al sub-ordinamento di specie).

Pietro Diaz

Tribunale Penale di Sassari – in composizione monocratica (Dott. S. Marinaro); sentenza 29.11.2012, che condanna l’imputato, Tizio, per il reato di cui all’art. 582 c.p. per avere cagionato a Caio lesioni personali, colpendolo con una testata.

– su taluna motivazione giudizio probatorio penale

1. cosa dire, altresì, della logica del Giudice penale che, nella motivazione della sentenza di condanna (per reato di lesioni ex art. 582 c.p.), valutando le prove a carico e quelle a discarico dell’imputato, Tizio, definisce, senza peraltro riportarne contenuto e fonti, “ininfluenti affermazioni di generico contenuto negativo, non incidenti sull’accertata verificazione del fatto, ma rappresentative della percepita realtà soggettiva”, le dichiarazioni testimoniali, a discarico, aventi il seguente tenore: “tutto il tempo che ho trascorso all’interno del [luogo ove il reato sarebbe avvenuto] Tizio è rimasto con me […] nella nostra compagnia non successe niente”, “non ricordo che il Tizio abbia avuto quella sera una discussione o un contatto fisico con Caio [persona offesa], anche perché Tizio è rimasto sempre con noi”, “ Noi [con Tizio] eravamo collocati nei divanetti sulla sinistra nei pressi del primo bar mentre questo movimento che è durato pochissimo si è svolto in fondo al locale nei pressi dell’altro bar. Tizio rimase tutta la sera con noi e che io ricordi non ebbe assolutamente discussioni con qualcuno, tantomeno contatto fisico” (testi Mevio e Sempronio), accomunando la valenza di queste a quella delle dichiarazioni che seguono “non conosco le parti e non ricordo tale fatto, non ho visto niente … non ricordo di avere assistito al fatto” (testi Filano e Calpurnio);

2. orbene, la sentenza, con grave vizio logico, confonde (e dunque non distingue tra) fatti genericamente negativi (non ho assistito ai fatti di cui mi si chiede) e fatti positivi contrari (Tizio non può avere leso chicchessia giacché quella notte, in quel luogo, è sempre stato in mia compagnia e mi sarei senz’altro accorto del fatto che mi si chiede), assumenti in specie forma e valore di alibi (fatto logicamente incompatibile con quello in imputazione);

3. nel caso de quo, con ogni evidenza, la prova del suddetto “fatto negativo”, o “non accadimento”, è data dalla prova del cennato fatto positivo contrario ad esso (Tizio è sempre stato in mia compagnia durante il lasso di tempo trascorso nel luogo de quo), riferito concordemente da più soggetti e non valutato dai giudici di prime cure e del gravame, prova, dicevasi, che desume dunque il fatto negativo da un positivo e specifico fatto contrario, che non può certo definirsi di “generico contenuto negativo” come affermato da quel Giudice (con giudizio che si attaglia alle sole dichiarazioni di Filano e Calpurnio)

4. la sentenza, dunque, accomuna, immotivatamente e, comunque, illogicamente, risultanze probatorie di valore dimostrativo totalmente difforme e non sovrapponibile, non distinguendo tra esse, mostrando quindi di averne travisato, per omessa valutazione o comunque distorsione delle relative acquisizioni processuali, la valenza probatoria e, per conseguenza, di non aver tenuto conto di fatti decisivi attinenti all’imputazione, espunti i quali il giudizio  risulta mistificato ;

5. eppure, da un lato, l’art. 192, co. 1 c.p.p. prescrive che la prova sia valutata dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati, da altro lato, l’art. 546, lett. e) c.p.p., attraverso il prescritto vaglio delle opposte “ragioni”, recepisce e traduce l’esigenza dialogica del confronto tra le diverse ipotesi ricostruttive del fatto formulate dalle parti, sicché il giudice non potrebbe limitarsi a designare un’ipotesi ricostruttiva del fatto (auto)confermandola con le sole prove che la dimostrino, ma dovrebbe, per contro, indicare compiutamente le ragioni che lo abbiano portato a escludere ipotesi contrarie e a ritenere non attendibili le prove che le supportano;

5.1. tanto che, una motivazione che considerasse le sole prove a conferma della ricostruzione fattuale prescelta  e non anche le prove contrarie, certamente potrebbe elaborare un ragionamento intrinsecamente coerente, ma perderebbe quella struttura dialogica che le è legalmente imposta (Tonini);

5.2. una motivazione, poi, che espungesse da sé acquisizioni processuali decisive o che distorcesse la valenza probatoria di esse, non sarebbe più nemmeno un ragionamento coerente, per “infedeltà” rispetto al processo, non appena quelle acquisizioni espunte o travisate fossero immesse in quel ragionamento, con effetto dirompente rispetto a congruenza, logicità e aderenza alla realtà (processuale) di esso.

Carlo Manca e Simona Todde con Pietro Diaz

Tribunale civile di Sassari; Giudice Dott.ssa Deiana, in memoria ex art.183, co. 6 n. 2 c.p.c.

– sulla deduzione della prova contraria civile

1. cosa dire se il convenuto, Ditta Alfa, onde dimostrare che il sinistro patito dall’attore non sia avvenuto in luogo sottoposto alla sua custodia, chiede l’audizione di teste (oculare) del cennato fatto contrario (infra capi a), Tizio, e, di teste indiretto (capo b), Caio, investigatore incaricato dalla Ditta Alfa, a cui Tizio avrebbe riferito il fatto or detto, contemporaneamente, peraltro, interrogando Tizio sulla circostanza d’avere raccontato a Caio il fatto de quo (nello stesso capo b):

1.1. “vero che il tale giorno  – alla tale ora – lungo la strada ubicata all’esterno del piazzale di proprietà della Ditta Alfa.,  Tizio cadeva al suolo” (capo a);

1.2. “vero che in  data X, nella propria abitazione, Tizio dichiarava a Caio che il tale giorno, all’ora detta, egli si trovava all’interno del piazzale della Ditta Alfa, allorché nella strada esterna  sentì Tizio chiedere aiuto” (capo b);

2. anzitutto, se la testimonianza deducibile è sempre diretta (su fatti visti o uditi o comunque percepiti dal testimone); se, per ciò, la testimonianza indiretta è (sempre) accidentale, se ne conosce processualmente la deducibilità assumendo la testimonianza (presupposta) diretta:

allora è inammissibile la deduzione contemporanea dell’una e dell’altra (in specie: Tizio, Caio), o, al meno, è inammissibile (per superfluità) la testimonianza indiretta (Caio);

2.1 peraltro, se la testimonianza deducibile ha l’oggetto sopra indicato (sub 2), esso non corrisponde a quello sub 1.2 (rispetto a Tizio), constante di un “fare” (in specie: avere detto….a Caio), e di un “fare proprio”, non altrui; perché inattestabile dal (p.u) testimone, attestabile solo dal p.u. che  avesse il potere, perché all’uopo conferitogli, di attestazione del fare proprio (oltre che altrui): art. 2699 c.c.;

2.2 peraltro, la testimonianza sul fare proprio del testimone, coinvolgendo necessariamente interesse proprio a lui, discosterebbe dalla terzietà (statutaria) d’esso;

2.3 e comunque, se il fare proprio del testimone fosse un dire, di lui, a qualcuno (Caio), ove questi non avesse alcun potere giuridico di documentazione, del dire, la testimonianza sul proprio avere detto sarebbe inammissibile per irrilevanza; ove avesse quel potere, la testimonianza sarebbe inammissibile per superfluità;

2.4 d’altronde, sarebbe inammissibile la testimonianza non dativa di informazione ai soggetti del processo, ma dativa di altra testimonianza (Caio) perché informi i predetti, non solo per la condizione giuridica del suo oggetto (sub 2), ma anche, perché non è prevista legalmente, rispetto alle parti e al giudice, la formazione originaria della testimonianza indiretta (è solo prevista la formazione successiva, alla constatazione, ripetesi, della testimonianza diretta quale indiretta);

 2.5 peraltro, la deduzione della testimonianza diretta deve qualificare il mezzo, d’essa, mediante precisazione della sua facoltà: se taluno sarebbe testimone di fatti per averli visti o uditi o in altro modo percepiti; giacché (anche) da  tale qualificazione dipende l’allestimento della prova contraria (diretta e indiretta);

2.5.1 la deduzione della testimonianza di specie (Tizio sub 1.1) non qualifica, al modo detto, il mezzo; e anche per ciò è inammissibile;

3. in altre parole: se la narrazione della circostanza sub “a” è inclusa in quella sub “b”, in essa implicata e ampliata dalla testimonianza de relato di Caio su ciò che dovrebbe deporre il teste di riferimento (Tizio) rispetto alla circostanza sub a e, simultaneamente, dalla richiesta di conferma rivolta al teste di riferimento (Tizio) sulla testimonianza de relato (di Caio), diviene superfluo, da un lato, l’audizione del teste indiretto (Caio), giacché non rileva sentire costui, nella disponibilità del teste diretto, da altro lato, risulta altresì irrilevante l’audizione del teste di riferimento (diretto) rispetto a entrambe le circostanze sub “a” esub “b”, se le stesse indagano due volte su un’unica circostanza dirimente (la presenza di Tizio all’interno o all’esterno del piazzale della Ditta Alfa.);

3.1. d’altro canto, il capo “b” è assegnato a “propaggine” della parte (fungente ad un tempo da testimonianza de relato e da vincolo alla precedente testimonianza diretta), Caio, investigatore incaricato dalla Ditta Alfa di indagare sui fatti per cui è causa, la cui deposizione è introdotta, parrebbe, per confutare eventuali dichiarazioni sgradite del teste diretto (Tizio), l’intero capo “b” diviene inammissibile;

Carlo Manca e Simona Todde con Pietro Diaz