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III° – EL codigo penal y constitucional Mariano

III (ultima parte)

Quanto al delito de Sedición (Delito contra el orden publico, Lib. II Tit. XXII, Cap.   I, art 544): Son reos de sedición los que, sin estar comprendidos en el delito de rebelión, se alcen pública y tumultuariamente para   impedir, por la fuerza o fuera de las vías legales, la aplicación de las Leyes o a cualquier autoridad, corporación oficial o funcionario público, el legítimo ejercicio de sus funciones o el cumplimiento de sus acuerdos, o de las resoluciones administrativas o judiciale: sono rei di sedizione coloro che, non avendo commesso delitto di ribellione, si sollevino pubblicamente e tumultuosamente per impedire, con la forza o fuori delle vie legali la applicazione delle leggi a qualche autorità..il legittimo esercizio delle loro funzioni, o l’adempimento degli accordi e delle risoluzioni amministrative o giudiziali.

I caratteri della sollevazione, dalla tumultuosità all’impiego della forza, ben disegnano il delitto, e ad  essa paiono adeguati i rilievi svolti in tema di rebelion . Compreso quello che la sollevazione deflagri, ex art 479 cit.,  dinanzi l’autorità  governativa chiamata a  sedarla o dissolverla (con effetti sulla punibilità e sulla pena),  giacchè, per  Artículo 549: .Lo dispuesto en los artículos 479 a 484 es también aplicable al delito de sedición). Mentre i fini, della sollevazione, si   dirigono verso l’ opposizione a comandi della legge o di altra autorità nel legittimo esercizio delle sue funzioni, o all’adempimento di accordi o di risoluzioni giudiziali.

E se i   comandi  sarebbero stati  quello  della legge (costituzionale) vietante il referendum; quello delle risoluzioni del Tribunal Constitucional che il giorno sette di  settembre,  su ricorso di Rajoy,  sospese la Ley del referendum de autodeterminacion approvata dal Parlamento il giorno prima,  e l’annullò il 17 di ottobre (perché avrebbe invaso  competenze statali e leso il principio costituzionale dell’ unità della nazione spagnola: art 2);   comandi che sarebbero stati disattesi, oltre che dalle manifestazioni e deliberazioni di settembre, dalla  dichiarazione di indipendenza fatta ( e invero sfatta nel contesto) dal presidente della Generalitat Puigdemont davanti il parlamento catalano il dieci di ottobre:
essi, palesemente, non furono opposti con modi e mezzi corrispondenti a quelli incriminati;  giacche interamente riconducibili, come sopra detto, a quelli di attività istituzionali di relativi organi. La sollevazione di popolo erompente tumultuosamente, non è visibile in alcuno dei fatti  addotti dalla Fiscalia e dal juez ad arresto dei membri della Generalitat.
Ed invero, nemmeno in quelli che hanno ispirato, nel juez  Lamela, l’arresto, per delito de sedicion, il 16 di ottobre, di Jordi Cuixart (presidente di Omnium Cultural) e di Jordi Sanchez (presidente della Assemblea Nacional Catalana), accusati di avere  organizzato e coordinato la manifestazione di protesta, di migliaia di persone, per l’arresto di 14 funzionari catalani ( sopra cennato),  nel corso delle  perquisizioni del 20 settembre, dalla  Guardia Civil, di alcuni edifici pubblici in cui si sospettava fosse custodito il materiale per il referendum (nell’occasione, Puigdemont ha denunciato il ritorno in Spagna di «presos politicos” e «vertenza (vergogna) democratica». E per quella manifestazione, che non avrebbe impedito ( secondo  questa magistratura,  un reato “commissivo, attivo”, quale è la sedizione, potrebbe avere forma “omissiva, passiva”!!), ha rischiato l’arresto (chiesto da La Fiscalia), Josep Trapero, il capo dei Mossos d’Esquadra, la polizia catalana, accusato appunto di sedizione (ma l’Audiencia Nacional ha concesso il ritiro del passaporto e l’obbligo di firma ogni 15 giorni).

Per cui valgono le conclusioni tratte sulla rebelion, e valgono anche le considerazioni sui delitti attribuibili a coloro, delle istituzioni spagnole, che agirono sulla “sedizione”, perquisendo, sequestrando, inibendo, coercendo fermando, incriminando, arrestando …sopra esposte……

Quanto infine al delito de Malversacion (Libro II, Tit. XIX, CAP.VII,  art 432): 1. La autoridad o funcionario público que cometiere el delito del artículo 252 sobre el patrimonio público, será castigado con una pena de prisión de dos a seis años, inhabilitación especial para cargo o empleo público y para el ejercicio del derecho de sufragio pasivo por tiempo de seis a diez años (l’autorità o il funzionario pubblico che commette il delitto di cui all’art 252 sarà punito…). Per l’art 252 d’altro canto: 1. Serán punibles con las penas del artículo 249 o, en su caso, con las del artículo 250, los que teniendo facultades para administrar un patrimonio ajeno, emanadas de la ley, encomendadas por la autoridad o asumidas mediante un negocio jurídico, las infrinjan excediéndose en el ejercicio de las mismas y, de esa manera, causen un perjuicio al patrimonio administrado (saranno puniti…coloro che, avendo facoltà  di amministrare un patrimonio altrui, per legge o per mandato della autorità o per negozio giuridico, eccedano dalle medesime cagionando un pregiudizio al patrimonio amministrato…). Ora,  se il reato è nucleato sulla alienità, altruità, del patrimonio rispetto al suo autore.

E se, per art. 156 de la Constitucion : 1. Las Comunidades Autónomas gozarán de autonomía financiera para el desarrollo y ejecución de sus competencias con arreglo a los principios de coordinación con la Hacienda estatal y de solidaridad entre todos los españoles: Le comunità autonome hanno autonomia finananziaria, cioè patrimonio proprio, per l’espletamento delle loro funzioni in armonia con i principii dell’erario dello Sato e di solidarietà  fra tutti gli spagnoli.

E se  “Sobre la malversación”, l’ordine di arresto di Lamela adduce que los querellados “han hecho posible la realización de pagos para llevar a cabo un acto no ya contrario a Derecho, sino constitutivo de delito en tanto vulnerador de la declaración de inconstitucional acordada por el Tribunal Constitucional”:  che gli incriminati hanno realizzato pagamenti per il compimento di un atto, il referendum, non solo  contrario al diritto ma anche costituente delitto di inosservanza della pronuncia del tribunale costituzionale:
quando la spesa, in tesi, fosse stata sviata dallo scopo, fosse stata illegittima per ciò, avrebbe pur sempre attinto a patrimonio dello spenditore, non di altri. Non avrebbe malversato.
Dunque, Mariano Rajoy, impregnato di franchismo, attaccata militarmente la dirigenza politica della Catalogna, occupatene le istituzioni, rimossa la soluzione giuridica della vertenza (già avvenuta con le deliberazioni del Tribunal Constitucional che hanno  annullato  quelle della Generalitat ),   insieme alla  possibilità della sua soluzione politica, rotti  i limiti delle leggi vigenti, compresi quelli  autoimpostisi (il  codigo penal vale dal 1996, anno del governo e del parlamento geriti dal Partido Popular allora guidato dal similpoliticante – si è detto – Jose Maria Aznar),  como  golpista ha jugado con la vida de otros…..
Pietro Diaz

II° – EL codigo penal y constitucional Mariano

II

Ma tornando ai diputats, può notarsi che sia il delitto de rebelion che quello de sedicion (vd.tra poco), non paiono, modalmente e funzionalmente, attagliarsi ad essi ed alle loro deliberazioni.

Perché le disposizioni descrivono sollevazioni di popolo, violente e pubbliche, irriconducibili  alle formali manifestazioni della volontà politica delle istituzioni della Generalitat (pur se, in ipotesi, giuridicamente aberranti, illegittime). Sollevazioni deflagranti, davanti autorità governative chiamate a sedarle o dissolverle (con effetti sulla punibilità o sulla pena): Artículo 479: Luego que se manifieste la rebelión, la autoridad gubernativa intimará a los sublevados a que inmediatamente se disuelvan y retiren. Si los sublevados no depusieran su actitud inmediatamente después de la intimación, la autoridad hará uso de la fuerza de que disponga para disolverlos. No será necesaria la intimación desde el momento en que los rebeldes rompan el fuego. Artículo 480. 1. Quedará exento de pena el que, implicado en un delito de rebelión, lo revelare a tiempo de poder evitar sus consecuencias.2. A los meros ejecutores que depongan las armas antes de haber hecho uso de ellas, sometiéndose a las autoridades legítimas, se les aplicará la pena de prisión inferior en grado. La misma pena se impondrá si los rebeldes se disolvieran o sometieran a la autoridad legítima antes de la intimación o a consequencia de ella: quando si manifesti la ribellione l’autorità governativa intimerà ai sollevati che…. si ritirino……andrà esente da pena l’autore del delitto che…..i meri esecutori de che depongano le armi……

D’altronde, se fossero state sollevazioni, le manifestazioni e le deliberazioni dei referendari indipendentisti, l’ordine di arresto del Juez Lamela avrebbe dovuto estendersi a tutti los sublevados (vd tra poco), alle centinaia di migliaia di persone che (oltre due milioni) parteciparono all’excursus referendario (articulo 473.1  Los que, induciendo a los rebeldes, hayan promovido o sostengan la rebelión, y los jefes principales de ésta, serán castigados con la pena de prisión de quince a veinticinco años e inhabilitación absoluta por el mismo tiempo; los que ejerzan un mando subalterno, con la de prisión de diez a quince años e inhabilitación absoluta de diez a quince años, y los meros participantes, con la de prisión de cinco a diez años e inhabilitación especial para empleo o cargo público por tiempo de seis a diez años. Cioè, punibili i promotori o gli organizzatori o i capi, della ribellione, lo sono anche “ i meri partecipanti”. E se ciò fosse stato ignorato, da  La Fiscalia e dal suo suo juez (il connubio fra essi e le loro funzioni non avviene solo in Italia, benchè in Spagna sia più sobrio), denuncerebbe vieppiù, negli arrestati, presos politicos.

Difatti.

Per i Delitos contra la Constitución (TÍT.  XXI,  CAP.  I Liber II), Rebelion articulo 472:  Son reos del delito de rebelión los que se alzaren violenta y públicamente para cualquiera de los fines siguiente: commettono il delitto di ribellione coloro che si sollevino  violentemente e pubblicamente, perseguendo qualcuno dei seguenti fini…: il  fine attribuito alla rebelion dall’ordine di arresto è di: 5.º Declarar la independencia de una parte del territorio nacional

Quindi, senza la sollevazione manca il delitto. Il quale manca anche se, essa, non abbia perseguito alcuni fini.

Ma quando quel fine avessero perseguito i membri del governo e del parlamento della Generalitat, da un lato, non lo avrebbero fatto sollevandosi al modo detto (va ricordato, peraltro, che Puigdemont ha ripetutamente insistito sulla “non violenza” della  azione  della  Generalitat); da altro lato lo fecero, dicevasi, nella esplicazione di funzioni istituzionali (pur in ipotesi illegittima).

D’altronde, se lo svolgimento di funzioni istituzionali non staccasse la “rebelion” dalla sua previsione legale, poiché tra los fines seguente d’essa appare 6.º Sustituir por otro el a …..el Consejo de Gobierno de una Comunidad Autónoma, o usar o ejercer por sí o despojar al ….Consejo de Gobierno de una Comunidad Autónoma, o a cualquiera de sus miembros de sus facultades, o impedirles o coartarles su libre ejercicio, u obligar a cualquiera de ellos a ejecutar actos contrarios a su voluntad (cioè il fine di subentrare  ….al Consiglio di Governo di una  Comunità Autonoma; o di  usarlo o esercitarlo per sé, o di  spogliare il Consiglio o alcuno dei suoi membri, delle sue facoltà, o impedire o coartare il loro libero esercizio od obbligare qualcuno d’essi ad eseguire atti contrari alla sua volontà):

sarebbe manifesta la corrispondenza ad esso della devastante manovra di intrusione di sostituzione di destituzione di coercizione di spoliazione delle funzioni  del Consiglio e dei  membri della Generalitat, attuata da Rajoy “al volante”  dell’art 155 della Constitucion.

E  manifesta la corrispondenza al fine di 4.º Disolver…. cualquier Asamblea Legislativa de una Comunidad Autónoma, impedir que se reúnan, deliberen o resuelvan, arrancarles alguna resolución o sustraerles alguna de sus atribuciones o competencias (fine di disciogliere l’Assemblea,….o di impedire che si riunisca, che i suoi membri deliberino o adottino risoluzioni o annullino risoluzioni o sottraggano attribuzioni o competenze), della devastante manovra attuata da Rajoy al comando de La Guardia Civil, con le irruzioni nelle sedi e nelle funzioni della Generalitat (e con l’arresto, a seguito delle manifestazioni di protesta di centinaia di migliaia di persone nei giorni 20, 21 di  settembre, di quattordici funzionari delle Generalitat, subito seguito da quello di Jordi Cuixart e di Jordi Sanchez  per delito de sedicion: vd dopo).

E manifesta la corrispondenza, di  quest’ultimo comando e dei suoi esecutori, al delito in  artículo 498: Los que emplearen fuerza, violencia, intimidación o amenaza grave para impedir a un miembro ….de una Asamblea Legislativa de Comunidad Autónoma asistir a sus reuniones, o, por los mismos medios, coartaren la libre manifestación de sus opiniones o la emisión de su voto: saranno puniti coloro che useranno forza violenza intimidazione minaccia per impedire a un membro dell’assemblea di partecipare alle sue riunioni , o con gli stessi mezzi, coartare la libera manifestazione delle loro opinioni o la espressione del voto.  E al delito in artículo 499:  La autoridad o funcionario público que quebrantare la inviolabilidad de …….una Asamblea Legislativa de Comunidad Autónoma, será castigado con las penas …..: la autorità o funzionario pubblico che infrangerà la inviolabilità della assemblea sara punito….

E se el juez Lamela, arrestando per delitti di rebelion (y sedicion)  avesse “steccato”,  come qui si ipotizza: “Los querellados jugaron un papel activo, impulsando el proceso soberanista minuciosamente diseñado y franqueando toda clase de barreras que pudieran desviarles de su última finalidad” ( :la dichiarazione di indipendenza). “La acción de los querellados fue meditada y perfectamente preparada y organizada, reiterando durante más de dos años el incumplimiento sistemático de las resoluciones del Tribunal Constitucional en pro de la independencia”. In  altre parole, el juez  accusa gli arrestati di avere elaborato  la strategia di un movimento secessionista, organizzata e con  divisione dei ruoli tra le autorità governative, parlamentari e le associazione indipendentiste (ANC e Ómnium) che permisero la celebrazione del referendum illegale dell’1 di ottobre e la dichiarazione d’indipendenza approvata nel Parlamento lo scorso 27 ottobre. Oltre che di avere inadempiuto alle risoluzioni del Tribunale Costituzionale a prò della indipendenza . Cioè li accusa, per tabulas, di nulla che sia, e nemmeno somigli a ribellino suesposta; allora:

è manifesta la corrispondenza della accusa al delitto in  Artículo 501. La autoridad judicial que inculpare o procesare a un miembro ……..de una Asamblea Legislativa de Comunidad Autónoma sin los requisitos establecidos por la legislación vigente, será castigada….: il giudice che avesse incolpato o processato un membro della Assemblea…. in mancanza dei requisiti stabiliti dalla legge….sarà punito.

In proposito non pare inutile rilevare che, in questa parte del codigo penal, le istituzioni della  Generalitat ed il loro addetti sono rappresentati  “soggetti passivi” del reato, quelli che lo subiscono, non “soggetti attivi”, quelli che lo commettono. Posizioni non invertibili, giudiziariamente,  nel sottosistema. Benchè lo siano state.

Dunque “reato comune”, di popolo, la rebelion, non di istituzione. Ovviamente, di  istituzione che non se alzaren violenta y públicament., come fece la istituzione, militare,  sollevatasi, nel mese di febbraio del 1981, con il   “colonnello Tejero”, il quale, al comando del La Guardia Civil (guarda caso..), irruppe pistola in pugno nel Parlamento madrileno, sequestrò alcuni  membri, ne disperse altri (non tutti, fra questi Santiago Carrillo, che non ne fu  intimorito), poi fu arrestato, incriminato per rebelion e condannato a trent’anni di carcere.

D’altronde, è stato ritenuto delito de desobediencia al Tribunal Constituzional (Lib. II, Tit.l XIX Cap. III. art 410: Las autoridades o funcionarios públicos que se negaren abiertamente a dar el debido cumplimiento a resoluciones judiciales, decisiones u órdenes de la autoridad superior, dictadas dentro del ámbito de su respectiva competencia y revestidas de las formalidades legales, incurrirán en la pena de multa de tres a doce meses e inhabilitación especial para empleo o cargo público por Tiempo de seis meses a dos años.: le autorità o funzionari pubblici che non adempissero a ..decisioni od ordini legittimi di autorità superiori saranno puniti ….), a marzo scorso, nel processo ad Artur Mas (ex presidente della Generalitat, Joana Orteg, ex vicepresidente, Irene Rigau, ex assessore, condannati a due anni di interdizione dai pubblici uffici: la Fiscalia aveva chiesto dicci anni de prision), il fatto di avere promosso, con manifestazioni e mobilitazioni e deliberazioni non diverse da quelle della Generalitat presente, nel 2014, un referendum consultivo sulla indipendenza della Spagna.     ….segue

Quanto al delito de Sedición (Delito contra el orden publico, Lib. II Tit. XXII, Cap.   I, art 544): Son reos de sedición los que, sin estar comprendidos en el delito de rebelión, se alcen pública y tumultuariamente para   impedir, por la fuerza o fuera de las vías legales, la aplicación de las Leyes o a cualquier autoridad, corporación oficial o funcionario público, el legítimo ejercicio de sus funciones o el cumplimiento de sus acuerdos, o de las resoluciones administrativas o judiciale: sono rei di sedizione coloro che, non avendo commesso delitto di ribellione, si sollevino pubblicamente e tumultuosamente per impedire, con la forza o fuori della vie legali la applicazione delle leggi a qualche autorità..il legittimo esercizio delle loro funzioni, o l’adempimento degli accordi e delle risoluzioni amministrative o giudiziali.

I caratteri della sollevazione, dalla tumultuosità all’impiego della forza, ben disegnano il delitto, e ad  essa paiono adeguati i rilievi svolti in tema di rebelion. Compreso quello che la sollevazione deflagri, ex art 479 cit., dinanzi l’autorità governativa chiamata a sedarla o dissolverla (con effetti sulla punibilità e sulla pena), giacchè, per Artículo 549: .Lo dispuesto en los artículos 479 a 484 es también aplicable al delito de sedición). Mentre i fini , della sollevazione, si   indirizzano alla opposizione a comandi della legge o di altra autorità nel legittimo esercizio delle sue funzioni, o all’adempimento di accordi o di risoluzioni giudiziali.

P.Diaz

I° – EL codigo penal y constitucional Mariano

Che il supertifoso (si dice) del Real Madrid, Mariano Rajoy, ambisse a sfondare, dopo quella avversaria dei campi da gioco, la rete dei diritti dei poteri delle prerogative delle funzioni delle istituzioni, dell’avversario politico, oltre che dedursi dalle sue ascendenze culturali (il franchismo monarchico), avrebbe potuto indursi da quanto perpetrò il suo Partido Popular addì 21 gennaio 2015, quando, al riparo delle mura del Parlamento madrileno, a maggioranza fornibile da sé stesso e a spregio della opposizione di ogni altro partito (di centro e di sinistra), reintrodusse nel codigo penal (benchè sedato qualche anno prima da una riforma “postfranchista”), la “cadena perpetua” (così è detto l’arnese che, nel lontano – e vicino – 1823-1848, fu, per la prima volta, stretto alla caviglia del condannato all’ergastolo, e vi restò fino al decesso del “Generale Franco” – che,  invero, antecipato di qualche anno dal “Generale De Rivera”, all’ergastolo aveva assegnato una “misura alternativa”: la pena di morte), fino al 1975 e all’avvento, poco dopo, della Constitucion (che lo aboliva implicitamente disponendo, all’art 25.2, reeducatiòn y reinsercion social del condannato).

Reintrodusse, quel Partito diretto dal compulsivo Rajoy, la “prisio permanente”, detta furbescamente “revisable” (correggibile), a scanso di addebiti di incostituzionalità ex art 25.2 de la Constitucion (in effetti, chiunque saprebbe obbiettare che è irrieducabile e irreinseribile in società chi sia murato a vita..), adducendo ad esempio positivo, in Parlamento, l’Italia ed il suo ergastolo “condizionale” (invero tornato incondizionato se “ostativo”), benché il suo codice penale fosse, e forse proprio perché era, il più efferato dell’Europa occidentale….

D’altronde, la passione per la pena glie la aveva ingrossata, alcuni anni prima (1996-2004), il similpoliticante Josè Maria Aznar, che aveva innalzato il  massimo detentivo da trenta a quarant’anni.

Insomma, un  Partido  Popular contra el pueblo, a meno che i condannati non fossero  popolo, o che, più veridicamente, ne fossero estraniati.

E per una  pena che sigillasse la politica sociale (carcerando el reo del “robo” – del  furto aggravato- si esonera dal confronto con la economia che lo genera, e dalla responsabilità relativa); e sigillasse la politica politica (vd dopo), che spacciando il dissenso o la disobbedienza o l’opposizione o la ribellione o la rivolta o la sedizione o la insurrezione, popolari, per delitos, si esonera dal confronto  con essi e dalla responsabilità relativa.

Ebbene in siffatta  “politica criminale” sono  completamente immersi il partito di Rajoy, il  Governo ed il Parlamento ed il Monarca madrileni; e sono incastrate le sorti dei loro  avversari. Di fatti.

Nell’anno 1995, il reame rifondato dal “Generale Franco” ammansì (si accennava) el codigo penal, in rapporto all’avversario comune (economico etico imprenditoriale amministrativo  sociale…). Ma non in rapporto all’avversario politico, a chi ledesse o turbasse o minacciasse (o anche solo pensasse di farlo: in ambito, anche in Italia si processano le intenzioni), la serenità politica del reame. Affinchè intatta e intangibile restasse l’antica maestà, quale contromisura di ogni altra sociopolitica, quale asimmetria di  sovrano a suddito.

Dunque monarchia “assoluta”, tutt’altro che “costituzionale”, “parlamentare”, quella spagnola in questa articolazione (antipopolare) dell’ordinamento giuridico. Neo franchismo, d’altronde pari al neomussolinismo del codice penale, che serba intera, anzi ha ampliato, in quella stessa articolazione, la dotazione della monarchia sabauda, pur fattasi “repubblica”: perché in effetti, all’assoggettamento penale dell’avversario politico si dedica certo statalismo, sia monarchico che repubblicano….

Vi si dedica,  cominciando  dall’atto primario  (vera  dichiarazione di guerra per il  tempo di pace) dell’affissione, alla condotta avversaria, della reità, della criminosità verso la discriminazione da ogni altra condotta (lecita o non penalmente illecita), quale epigrafe della sua persecuzione fino alla eliminazione militare edulcorata dalla toga. Dove la  democrazia con codici siffatti è superstizione, credenza, propaganda fraudolenta, e massacro di popolo.  E dove, o prima o poi,  piovono pusch golpe pogrom: il genere di calamità sociopolitica innescata da Mariano Rajoy.

Cui par necessario  ricordare (nessuno tuttavia credendo  possa dimenticarlo), che per l’art 55.3 del  Estatut de autonomia de Catalunya (TÍTOL II, De les institucions, CAPÍTOL I)El Parlament ès inviolable…..; e per l’art.  57.1 (Estatut dels diputats):  1. Els membres del Parlament són inviolables pels vots i les opinions que emetin en l’exercici de llur càrrec : il Parlamento è inviolabile e lo sono anche i suoi membri, per i voti e le opinioni espressi nell’esercizio del loro incarico.

Dunque gli indicenti e deliberanti, a settembre e ottobre scorsi, referendum e indipendentismi, che fossero parlamentari (primo fra tutti  Puigdemont, President de la Generalitat de Catalunya), ciò facenti d’altronde con opinioni e voti (addirittura con valore di ley, di legge, il sei di settembre scorso: vd dopo) emessi nell’esercizio del loro incarico, erano inviolabili. Intangibili comunque da quell’atto (violento e distruttivo) che è l’accusa penale con arresto (mentre, ovviamente, non lo erano le deliberazioni, dalla  contestazione  giuridica e giudiziaria extrapenale, ad esempio quella attuata, su richiesta delGobiernomadrileno, dal  Tribunal Constitucional, che ha sospeso e poi annullato quella ley e altro: vd dopo)

Anche perché, e per di più, Durant llur mandat gaudeixen d’immunitat amb l’efecte concret que no poden ésser detinguts si no és en cas de delicte flagrant : …godono di immunità dagli arresti, non possono essere arrestati se non in caso di delitto flagrante (art 57 cit.): cioè che avvenga al momento dell’arresto (può qui notarsi incidentalmente che se, per art 57.2 :  En les causes contra els diputats, és competent el Tribunal Superior de Justícia de Catalunya. Fora del territori de Catalunya la responsabilitat penal és exigible en els mateixos termes davant la Sala Penal del Tribunal Suprem: nelle cause contro i deputati è competente il tribunale catalano, fuori della Catalogna è competente il tribunale madrileno; se “Fora”, della Catalogna, si riferisse al delitto, in vece lì commesso, la competenza territoriale del processo in corso apparterrebbe al primo, non al secondo, tribunale, che ciò malgrado se l’è presa).

Per cui a sconcerto dell’ordine giuridico sopra delineato potrebbe ritenersi diramato l’ordine di arresto dei parlamentari catalani impartito dal juez Carmen Lamela su richiesta de La Fiscalia madrilena (la quale, peraltro, ha  incriminato anche i membri della “Mesa del Parlamento” che ammisero alla discussione una mozione di Junts pel Sí che trattava di iniziative per la creazione di una Repubblica catalana). Atto di imprigionamento extragiuridico (benchè giudiziario) e politico, diretto a fare “presos politicos” dalla magistratura al servizio del Governo madrileno al servizio del re (dal quale El Fiscal General del Estado será nombrado …, a propuesta del Gobierno, oído el Consejo General del poder judicial, per quattro anni eccezionalmente rinnovabili, oggi assegnati a Josè Manuel Maza: articulo 124. 4 Constitucion,) cui ovviamente mai potrebbero garbare i repubblicani ; né potrebbe bastare la loro destituzione dalle, sostituzione nelle, funzioni conferite a suffragio popolare, che l’art 155 della Constitucion avrebbe rimesso nelle mani (profane) di Rajoy, secondo quanto va raccontando, ma che lì non si legge affatto:
Artículo 155.1. Si una Comunidad Autónoma no cumpliere las obligaciones que la Constitución u otras leyes le impongan, o actuare de forma que atente gravemente al interés general de España, el Gobierno, previo requerimiento al Presidente de la Comunidad Autónoma y, en el caso de no ser atendido, con la aprobación por mayoría absoluta del Senado, podrá adoptar las medidas necesarias para obligar a aquélla al cumplimiento forzoso de dichas obligaciones o para la protección del mencionado interés general. 2. Para la ejecución de las medidas previstas en el apartado anterior, el Gobierno podrá dar instrucciones a todas las autoridades de las Comunidades Autónomas.

Dove si apprende, dal secondo comma, che il Governo, per la esecuzione del las medidas, le misure adottate, potrà dare istruzioni alle autorità delle comunità autonome, non destituirle e sostituirle. E si apprende, dal primo comma, che las medidas saranno proporzionali e funzionali all’adempimento forzoso delle obbligazioni inadempiute dalla Comunità; cioè a far sì che questa adempia,  ma senza la destituzione e la sostituzione degli  obbligati.

E che quindi non vi è traccia, nell’art 155 cit.,  delle misure richieste dal Governo al Senato e da questo  approvate addì  27 di ottobre:
– l’attribuzione al capo del governo madrileno del potere di sciogliere il Parlamento dellaGeneralitat  e di convocare nuove elezioni (entro un massimo di sei mesi);
– l’attribuzione allo stesso del potere di destituire il presidente della Generalitat Carles Puigdemont e il suo Govern; e di assegnare le funzioni di questa ai ministri del proprio Governo;
– la riduzione della funzione de La Generalitat alla amministrazione ordinaria;
– la sottrazione al Parlament del potere di proporre il candidato alla presidenza della Generalitat.

E tanto meno vi è traccia della possibilità  dell’arresto degli obbligati.

Insomma, quando si noti che nemmeno la lista, degli obblighi che sarebbero stati inadempiuti, fu predisposta, dal Governo di Rajoy, non solo per la contestazione a Puigdemont, preliminare alla deliberazione del Senato por la aprobation a majoria absoluta, de las medidas, ma neanche per questa,  si comprende  che cosa abbiano fatto,   Governo e  Senato madrileni, dell’art. 155 Constitucion.  

Volendosi comprendere per analogia, basti osservare la Turchia sotto il maglio di Erdogan (“ex calciatore professionista”), dove l’avversario politico anche solo ipotetico, destituito da ogni funzione, servizio, stato, è arrestato in massa, espulso dal contesto sociale, disperso.

Segue    

P.Diaz

Interferenze tra inammissibilità del ricorso per cassazione e prescrizione del reato

1. introduzione.

Dall’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988 a oggi, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono occupate più volte del rapporto tra inammissibilità dell’impugnazione e obbligo di immediata declaratoria delle cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p.. In particolare, si è chiesto alle Sezioni Unite di stabilire quale decisione sia prioritaria nell’ambito del giudizio di legittimità, allorché si ravvisi la contemporanea presenza di una causa d’inammissibilità del ricorso e di una causa di estinzione del reato. Quale deve dichiarare la Corte? La scioglimento del quesito non è di poco conto e involge, da una parte, considerazioni di politica criminale e di tutela dell’ordinamento, dall’altra, il principio fondamentale del favor rei. La scelta sulla priorità tra le due questioni, infatti, oltre ad incidere – come è evidente – sulla sfera di applicabilità dell’art. 129 c.p.p. (ispirata al principio de quo), interferisce in modo diretto sulle strategie difensive dell’imputato, “incentivandolo o meno alla proposizione di ricorsi dilatori, finalizzati a far maturare la prescrizione del reato”.

Senza celare che, in assenza di una norma che preveda un esplicito ordine di preferenza tra le due decisioni, una disciplina della questione affidata all’interpretazione giurisprudenziale presta il fianco all’accusa – non sopita dal richiamo alla teoria ermeneutica giusrealista – di sconfinare nelle prerogative riservate al legislatore[1]. Di qui la critica mossa da alcuni commentatori alle Sezioni Unite, a fronte della soluzione invalsa (di cui infra), di obbedire surrettiziamente agli “imperativi dell’efficienza e della lotta ai possibili abusi delle parti[2]. Invero, nella scelta rigoristica invalsa si riscontrano elementi funzionali all’obiettivo ivi inscritto (porre un freno alle “impugnazioni meramente dilatorie”), frutto dello sforzo creativo orientato verso il fine predetto, piuttosto che ancorati testualmente alla normativa vigente.

2. nel codice previgente

Prima di analizzare l’excursus giurisprudenziale menzionato, si ricorda che il rapporto controverso in esame fu oggetto di dibattito già all’epoca del codice Rocco, allorché si contendevano il campo, accanto ad una posizione intermedia, poi prevalsa, due tesi estreme: una “rigorista” e l’altra “liberale”[3]. Secondo la prima, la pronuncia d’inammissibilità era prioritaria e, per ciò, prevaleva sempre sull’accertamento delle cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p. (art. 152 del Codice Rocco): cfr. “il giudizio di merito richiesto dalla declaratoria delle cause di non punibilità in tanto sarà possibile in quanto siano già sussistenti i requisiti richiesti dalla legge per la valida costituzione del rapporto processuale; in quanto, cioè, l’impugnazione sia ammissibile[4]. Di contro, per la tesi liberale prevalevano le cause di non punibilità, in ossequio a un criterio di giustizia sostanziale e alla stessa lettera della disposizione codicistica, la quale prescriveva la dichiarazione in oggetto fino a quando il processo non fosse definito con una sentenza irrevocabile[5].

In posizione intermedia, si collocava l’indirizzo dottrinale, concepito dal Manzini, e poi ripreso dalla giurisprudenza di legittimità, anche odierna, che distingueva tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute dell’impugnazione. Solo le prime impedivano la declaratoria di prescrizione del reato, precludendo all’impugnazione di inibire il definitivo passaggio in giudicato della sentenza. Mentre le altre, concernendo vizi sopravvenuti del gravame e implicando un esame pur sommario degli atti processuali, non avrebbero ostacolato la declaratoria sopra cennata. Come anticipato, tuttavia, la distinzione tra inammissibilità originaria e inammissibilità sopravvenuta risale all’epoca del codice previgente, elaborata, dunque, in un regime processuale contrassegnato dal riparto di competenze tra giudice a quo e ad quem e dalla separazione tra il momento introduttivo del gravame (“dichiarazione”) e il momento di sviluppo argomentativo di esso (“motivi”). Alla stregua di tale separazione, l’atto d’impugnazione era invalidato ab origine solo dai vizi infestanti la “dichiarazione” (quale manifestazione della volontà di non acquiescienza alla pronuncia impugnata), i quali non impedivano il passaggio in giudicato della sentenza (impugnazione proposta da soggetto sprovvisto di legittimazione, ovvero avverso a provvedimento non assoggettato all’impugnazione proposta, dichiarazione non presentata nella forma, nel tempo e nel luogo prescritti). In tali casi, già esauritosi il procedimento, l’art. 152 c.p.p. Rocco (oggi 129) non avrebbe potuto applicarsi, con seguente dichiarazione dell’inammissibilità in via prioritaria[6]. Ove, invece, i vizi del gravame avessero colpito i “motivi” (omessi o irritualmente presentati), essendo ancora in corso il procedimento per effetto di una valida dichiarazione, “il giudicato penale si sarebbe prodotto solo quando l’impugnazione fosse stata dichiarata inammissibile  da parte del giudice ad quem, in base all’art. 209 c.p.p. [Rocco]”. Onde, “l’ordinanza che sanciva l’inammissibilità sopravvenuta del mezzo d’impugnazione aveva natura costitutiva ed effetto ex nunc[7]. Non si ravvisava, in tali ipotesi, alcun ostacolo insuperabile ad una declaratoria di eventuali cause di non punibilità ai sensi dell’allora vigente art. 152 c.p.p. Rocco. Stesso discorso per l’impugnazione proposta da soggetto carente di interesse e per gli specifici casi di inammissibilità del ricorso per Cassazione, vale a dire i motivi non consentiti o manifestamente infondati (art. 524 c.p.p. Rocco), tutti ritenuti cause sopravvenute, non preclusive, conseguentemente, della dichiarazione di non punibilità, concernendo i motivi e, dunque, “l’atto integrativo” del rapporto d’impugnazione[8].

3. nel codice vigente

Nell’attuale sistema processuale, con l’art. 581 c.p.p., scompare la distinzione tra dichiarazione e motivi, racchiusi ora in unico atto e soggetti ad identico termine per la presentazione. Le cause di inammissibilità dell’impugnazione sono ora tutte individuate, in via generale, dall’art. 591 c.p.p., il quale accomuna le ipotesi olim definite originarie o sopravvenute (carenza di legittimazione e di interesse, inoppugnabilità del provvedimento, inosservanza delle norme concernenti la forma, la presentazione, la spedizione e i termini di impugnazione, nonché il regime delle ordinanze emesse in dibattimento e la rinuncia), prescrivendo al comma 2 che il giudice dell’impugnazione, anche d’ufficio, dichiari con ordinanza l’inammissibilità dell’impugnazione e disponga l’esecuzione del provvedimento impugnato[9]. Alla stregua di tali premesse, non è parso vi fosse più ragione per accogliere nell’alveo delle cause originarie d’inammissibilità quelle sole ipotesi che viziano la dichiarazione del gravame. A rigore, invero, pressoché ogni inammissibilità sarebbe “originaria” (esclusa la rinuncia all’impugnazione). Pertanto, anche il discrimen causa originaria/causa sopravvenuta è parso desueto. Si è continuato, nondimeno, a discernere la natura originaria o sopravvenuta delle cause d’inammissibilità, ricercando un nuovo confine tra esse[10].

Nel solco di tale impostazione, si è ridata dignità alla distinzione in esame alla stregua dell’art 648 c.p.p., a mente del quale, oltre all’ipotesi delle “sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione” (comma 1), solo l’impugnazione tardiva colloca l’irrevocabilità della sentenza al momento del verificarsi della causa di inammissibilità. Quest’ultima, dunque, è originaria se riconducibile all’inosservanza del termine per impugnare o alla dichiarazione di inoppugnabilità della sentenza; sopravvenuta in tutti gli altri casi, ove l’irrevocabilità consegue non già alla sola verificazione della causa di inammissibilità, ma alla sua dichiarazione con provvedimento, a sua volta irrevocabile[11]. Pertanto, poiché fino al momento in cui la sentenza non sia definitiva, il processo non può considerarsi definitivamente concluso, “il giudice davanti al quale esso è pendente ha il potere-dovere, in presenza dei relativi presupposti, di pronunciare la sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 129 c.p.p.” (Cass., Sez I, 8 ottobre 1990). Come è stato sottolineato, il punto di forza di tale orientamento risiede nel richiamo all’unica norma del codice che esplicitamente considera il rapporto tra inammissibilità dell’impugnazione e irrevocabilità della sentenza. Nella porzione di tempo intercorrente tra impugnazione e declaratoria di inammissibilità, il processo è ancora in vita, onde il sopraggiungere della prescrizione del reato impone al giudice di dichiararla d’ufficio con sentenza[12].

4. plurimi interventi delle Sezioni Unite

Dalla suddetta tesi la dottrina si è discostata, poiché ritenuta conforme a “concezione meramente formale del giudicato”, incurante della figura del c.d. “giudicato sostanziale” (collocato al momento dell’insorgenza della causa di inammissibilità)[13]. Anche le Sezioni Unite della Cassazione respingono la soluzione rinvenuta nell’art 648 c.p.p.. La Corte, sulla scorta di tale assunto, inaugura la nota serie di interventi sull’uso strumentale delle impugnazioni,  incentrati sulla verifica della sussistenza o meno di una richiesta di esame sul merito del gravame. Nella prima pronuncia del 1994 (Cass., Sez Un., 11 novembre 1994), la Corte esclude da subito la rilevanza dell’art. 648 c.p.p., giacché “la disposizione in questione, come emerge dalla sua collocazione, è diretta a disciplinare il giudicato ed a segnare l’inizio della fase esecutiva, mentre è dalle norme che regolano il processo che deve trarsi la disciplina dei rapporti tra cause di inammissibilità e cause di non punibilità, al fine di stabilire quale tra esse debba prevalere”.

Si perviene così a quell’excursus giurisprudenziale che comprimerà, fino ad annullarla, l’operatività dell’art. 129 c.p.p.. Le riflessioni delle Sezioni Unite si focalizzano sul  momento in cui la decisione di merito debba ritenersi preclusa: ”quello in cui la causa di inammissibilità si verifica? O quello in cui la stessa è stata dichiarata? In altre parole, l’ordinanza di inammissibilità ha natura dichiarativa (con effetto ex tunc) o costitutiva (con effetto ex nunc)?[14] Quesiti risolti affidandosi, in principio, alla tradizionale separazione tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute, istituita questa volta alla stregua dell’esigenza o meno di un esame sul merito del ricorso.

Dapprima sono ritenute originarie tutte le cause di inammissibilità previste dall’art. 591 c.p.p. (con eccezione della rinuncia)[15]. Si tratta dell’impugnazione proposta da chi non è legittimato o non ha interesse, del gravame proposto contro provvedimento inoppugnabile e della violazione delle disposizioni degli artt. 581, 582, 583, 585 e 586 c.p.p., disciplinanti rispettivamente le modalità concernenti forma, presentazione, termini e spedizione dell’impugnazione, nonché i limiti di inoppugnabilità delle ordinanze. Per contro, sono reputate “sopravvenute” (quindi non preclusive dell’applicazione dell’art. 129 c.p.p.), giacché implicanti “un esame, a volte anche approfondito, degli atti processuali”, le cause di inammissibilità indicate nell’art. 606, comma 3 c.p.p. (motivi non consentiti, manifestamente infondati e per violazioni di legge non dedotte con i motivi d’appello). In particolare, si è osservato che “il discrimine tra manifesta infondatezza e (semplice) infondatezza dei motivi è incerto e pone il giudice di fronte a una scelta talvolta opinabile, che nondimeno agli effetti pratici non è fonte di conseguenze radicalmente diverse se concerne solo l’alternativa tra inammissibilità e rigetto del ricorso, mentre diventerebbe assai impegnativa se l’inammissibilità per manifesta infondatezza dovesse considerarsi preclusiva di un proscioglimento a norma dell’art. 129 c.p.p.” (Cass., Sez. Un., 11 novembre cit.; conforme Cass., Sez., Un., 24 giugno 1998, n. 11493).

Ulteriore pronuncia delle Sezioni unite (Cass., Sez. Un., 30 giugno 1999, n. 15) ha qualificato “originarie” “quelle cause che, attenendo ai requisiti formali dell’atto di impugnazione o ai presupposti legislativamente previsti per il valido esercizio del diritto di impugnazione, e non involgendo un giudizio di merito, impongono di adottare una decisione in limine, semplicemente dichiarativa della mancata instaurazione di un valido rapporto processuale, tanto da impedire l’inutile prosecuzione di un’attività comunque destinata a pervenire, a norma dell’art. 591 comma 4 c.p.p., anche a posteriori, ad un accertamento negativo della pendenza di un processo. In tale ipotesi si è, infatti, in presenza di un simulacro di gravame che il provvedimento che ne dichiara l’inammissibilità, per sua natura dichiarativo, rimuove dalla realtà giuridica fin dal momento della sua origine”. Dunque, oltre alle cennate ipotesi indicate nell’art. 591 c.p.p., sono ritenute (inammissibilità) originarie altresì: l’enunciazione di motivi non consentiti e la denuncia di violazioni di legge non dedotte con i motivi d’appello. In entrambi i casi si ravvisa il difetto ab origine dell’impugnativa. Nel primo, è carente un requisito necessario – data la natura di gravame a critica vincolata – a qualificare l’atto come ricorso per cassazione. Nel secondo, in forza del combinato disposto degli artt. 606, comma 3 e 609, comma 2, c.p.p., l’impugnazione è “inidonea a devolvere alla suprema Corte la cognizione di questioni già precluse”[16], e, quindi, a intaccare il giudicato già formatosi.

Rispetto all’orientamento precedente, residua, tra le cause di inammissibilità sopravvenute, la sola manifesta infondatezza dei motivi. In tale ipotesi – evidenzia la sentenza in esame – vi sarebbe una fattispecie peculiare in cui la natura preliminare dell’esame di inammissibilità dell’impugnazione non impedisce alla Corte di pronunciare l’estinzione del reato, “per insopprimibili ragioni logiche, solo in esito ad una delibazione sulla fondatezza della censura. Lo stretto legame con il merito rende perciò […] ininfluente la preclusione dell’esame di merito che – secondo i principi generali –deriverebbe dall’inammissibilità dell’impugnazione, perché l’inammissibilità in esame di per sé già si colloca sostanzialmente tra le statuizioni di merito”. Ed è, appunto, la collocazione all’interno del grado del processo per cassazione che, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., consente – secondo tale ricostruzione – di pronunciare l’estinzione del reato ove sia maturata la prescrizione.

Un ennesimo intervento delle Sezioni Unite rovescia tale assunto: “l’inammissibilità del ricorso per cassazione  dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. (nella specie la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata)” (Cass., Sez Un., 22 novembre 2000, n. 32). Anche la manifesta infondatezza del ricorso, quindi, si aggiunge all’elenco delle cause d’inammissibilità originarie, operanti ex tunc, cioè dal momento in cui l’atto di impugnazione è presentato e non da quello in cui è dichiarato invalido. Il gravame è considerato tamquam non esset ed il giudicato retroagisce allo scadere del termine per l’impugnazione della sentenza d’appello. Si nega, in sostanza, senza eccezioni, che sia configurabile un potere di decidere il merito nonostante l’inammissibilità del gravame. Ciò in quanto, il giudice, nel valutare l’ammissibilità dell’impugnazione, “statuisce in ordine al proprio potere di decidere il merito della questione”, non potendo darsi, in caso di accertamento negativo, impulso necessario alla trattazione del ricorso, mancando di forza propulsiva l’atto di gravame, incapace per tale ragione di accedere all’ulteriore stato e grado del processo che consentirebbe la declaratoria della prescrizione ex art. 129 c.p.p.. Solo apparentemente, pertanto, il vaglio di inammissibilità (in caso di manifesta infondatezza) verterebbe sul contenuto del gravame, essendo in realtà circoscritto alla verifica della valida instaurazione del giudizio di legittimità. Il giudice non interloquisce sul tema del procedimento, ma sulla conformità dell’atto al suo modello legale di riferimento (dato dall’art. 606 c.p.p.)[17].

Più precisamente, le Sezioni Unite osservano che “la coppia di valori ammissibilità-fondatezza, inammissibilità-infondatezza, così come delineata dalla legge, non ammette l’introduzione di zone grigie, cosicché la manifesta infondatezza, collocata nell’alveo dell’inammissibilità, resta in quest’ambito definita da dati di ordine qualitativo che ne provocano l’assimilazione – sul piano della struttura e della funzione – agli altri casi di inammissibilità previsti dalla legge”. In tutte e tre le figure menzionate dall’art. 606, comma 3 c.p.p. è riscontrabile un legame con la “tipizzazione delle vie di accesso alla Corte Suprema” in coerenza con il vigente giudizio di legittimità fondato su “un sistema di devoluzione rigorosamente prestabilito[18]. Onde, anche il controllo finalizzato a rilevare l’evidente inconsistenza delle argomentazioni formulate dal ricorrente si risolve in “una verifica preordinata alla constatazione dell’esistenza di censure non iscrivibili nel paradigma dell’art. 606, comma 1 c.p.p.”, verifica idonea, in caso di esito positivo, a privare il gravame “di quell’impulso necessario a originare il giudizio di impugnazione[19]. Alla luce di tali notazioni, quindi, non è tanto al grado di difficoltà della verifica che occorre fare riferimento, quanto “all’assenza di ogni scrutinio contenutistico del ricorso[20].

Riassumendo, si osserva come, prendendo le mosse dalla distinzione tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute, le Sezioni Unite siano pervenute a considerare le cause di inammissibilità come una categoria unitaria, da cui scaturisce un solo effetto: non poter decidere il merito del ricorso. Tale assunto è ribadito in successive pronunce delle stesse Sezioni Unite, ancora in tema di interferenze tra prescrizione del reato e inammissibilità del ricorso per cassazione. Si tratta, in particolare, della prescrizione maturata indi la sentenza di secondo grado (ma prima del ricorso: Cass., Sez. Un., 27 giugno 2001, n. 33542), e della prescrizione maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza d’appello (ma non dedotta dalla parte né rilevata dal giudice: Cass., Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 23428). In coerenza con l’orientamento sopra esposto, entrambe le decisioni, sul presupposto dell’inammissibilità (per violazione del criterio della specificità dei motivi) del ricorso per Cassazione, negano che l’intervento della prescrizione – quale che sia il momento in cui esso si realizzi – possa farsi valere ai sensi dell’art 129 c.p.p.. Difatti, stante l’inammissibilità del ricorso e posto che essa “paralizza i poteri del giudice a partire dal momento in cui si verifica” (anziché dal momento in cui viene dichiarata), non vi sarebbe  possibilità – da parte della Corte di Cassazione – di dichiarare l’estinzione del reato ex art. 129, sia che questa succeda al verificarsi della causa d’inammissibilità, sia che la preceda[21]. Conseguendo ciò, dicevasi, all’intrinseca incapacità dell’atto invalido di accedere davanti al giudice dell’impugnazione[22] (i cui poteri di decidere il merito sono, appunto, “paralizzati”), onde la sentenza impugnata, se aggredita con gravame inammissibile, non potrebbe inibire il formarsi del giudicato (sostanziale).

Detto orientamento è confermato, da ultimo, nella recente Cass., Sez Un., 25.03.2016, n. 12602: “L’inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la rilevabilità d’ufficio della prescrizione del reato maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, non eccepita nel grado di merito e non rilevata da quel giudice né dedotta con i motivi di ricorso”. La pronuncia or detta ribadisce, in proposito, che “solo dopo aver verificato l’ammissibilità dell’impugnazione il Giudice possa decidere nel merito del processo; viceversa, qualora sia dichiarata l’inammissibilità dell’impugnazione, non può aver luogo alcuna pronuncia sul merito”, giacché saremmo “di fronte ad un atto processuale invalido e, quindi, inidoneo ad attivare il corrispondente rapporto processuale”. Non potrebbe, per ciò, riconoscersi alla prescrizione alcuna effettività sul piano giuridico, rimandando la stessa relegata “nella categoria dei fatti storicamente verificatisi ma giuridicamente indifferenti per essersi già formato il giudicato sostanziale” (cfr. Cass., Sez Un. n. 12602 cit.).

5. conclusioni critiche

A chiosa e commento dei cennati interventi, deve riprendersi quanto accennato all’inizio, a proposito del timore che la descritta visione del rapporto tra inammissibilità e art. 129 c.p.p. sia animata più dalla esigenza (rectius, volontà) di conseguire un certo risultato, frutto della spinta eteronoma dell’ideologia, che da una coerenza interna all’ordinamento processuale. Perplessità che nasce dalla dichiarata finalità – manifestata nelle sentenze delle Sezioni Unite – di evitare che la potestà d’impugnare sia esercitata “come strumento, non soltanto per procrastinare la formazione del titolo esecutivo, ma anche per conseguire effetti di favore di ordine sostanziale in presenza di un gravame soltanto apparente. In un regime in cui al favor impugnationis (quale ricavabile da numerosi precetti del codice di rito) fa da rigoroso contrappunto l’esigenza di conformare l’atto di impugnazione ai requisiti prescritti dalla legge” (cfr. Cass. Sez Un.,, n. 32/2000, n. 23428/2005); “[Le ipotesi di inammissibilità] sono, per lo più, espressione di un tatticismo difensivo a fini dilatori, che mira a procrastinare il passaggio in giudicato formale della sentenza , nella prospettiva spesso di propiziare la scadenza dei termini di prescrizione” (cfr. Cass. Sez Un, n. 12602/2016).

La preoccupazione di arginare “ricorsi meramente dilatori” ha propiziato il consolidamento della tesi rigoristica, volta a scoraggiare condotte “opportunistiche[23]. Nondimeno, il rischio insito in un approccio siffatto è la forzatura ermeneutica del dato normativo. Rischio, quello de quo, di cui la stessa Corte di legittimità è conscia, allorché riconosce che nel sistema processuale “v’è la contemporanea presenza di norme che impongono al giudice obbligatorie declaratorie dal contenuto antitetico, senza stabilire alcun ordine di priorità tra le stesse pronunce” (cfr. Cass., n. 12602 cit.). Al riguardo, non si comprende, ad esempio, la facilità con cui si sia scartata la soluzione fondata sull’art. 648 c.p.p., unico appiglio esplicito al codice di rito, a favore di una nozione di giudicato sostanziale, “priva di chiara legittimazione normativa[24]. Per contro, asserire che il giudicato si formi automaticamente con l’insorgere della causa di inammissibilità e non al momento della sua dichiarazione – con ordinanza – da parte del giudice, è il risultato di una scelta normativa che dovrebbe, per ciò, ancorarsi al diritto positivo. In ogni caso, anche a voler trascurare la soluzione offerta dall’art. 648 c.p.p., si osserva che le Sezioni Unite non hanno approfondito il tema della definizione dei “poteri cognitivi del giudice del gravame allorché è chiamato a verificare l’ammissibilità dell’impugnazione[25].

Se è vero, infatti, che le parti hanno l’onere di rispettare determinati requisiti di ammissibilità al fine di introdurre il procedimento di impugnazione e di far si che operi l’effetto devolutivo[26], è altresì vero che la violazione dei requisiti de quibus preclude unicamente l’esame del contenuto del gravame, il quale postula l’impulso di parte (e quindi dell’assolvimento del suddetto onere), ma non involge, inibendola, l’efficacia di una norma di favore come quella prevista dall’art. 129 c.p.p., espressamente applicabile d’ufficio e la cui attuazione non implica alcun esame sul merito dell’impugnazione[27]. Nessuna norma processuale supporta tale assunto preclusivo che, nondimeno, le Sezioni Unite, nelle  pronunce cennate, hanno mostrato di considerare pacifico, [in]adempiendo alla funzione nomofilattica con esiti che non possono certo dirsi ispirati a criteri di giustizia, se non per antifrasi.

D’altro canto, se “inammissibilità” è espressione ellittica di “inammissibilità nel merito” ed essa è “la qualifica giuridica di quella domanda che non ha attitudine a vincolare il giudice ad emettere una pronunzia sul merito di essa” (Delogu), allora vi è da chiedersi se non siano ravvisabili due distinti rapporti processuali, quello relativo al merito dell’impugnazione, ex art. 609, co. 1 c.p.p. (istituito da un valido atto di impugnazione) e quello (ispirato al principio del favor rei) relativo alla verifica delle questioni rilevalibili d’ufficio in ogni stato e grado del processo, ex art. 609, co. 2 c.p.p. (istituito da un tempestivo atto di impugnazione). Desta perplessità, in proposito, l’abbandono radicale della distinzione tra dichiarazione e motivi dell’impugnazione (vd. supra), la quale (distinzione), seppur scomparsa dalla struttura materiale dell’atto, non pare sia scomparsa pure concettualmente da esso. Invero, se con la richiesta di impugnazione inclusa nell’atto de quo si manifesta (ora implicitamente) la volontà di non prestare acquiescienza al provvedimento impugnato, rilevante alla stregua degli effetti del c.d. giudicato formale (ex art. 648 c.p.p.), con l’enunciazione dei motivi si esprimono le specifiche ragioni per cui la decisione sarebbe ingiusta o contra legem, vincolando la Corte alla pronuncia su essi. A tale stregua, l'(eventuale) mancata instaurazione del rapporto processuale sui “motivi” non inibisce la formazione del rapporto sulle cennate questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo, evitando con ciò l’incogruenza (e l’iniquità) dell’inclusione della prescrizione “nella categoria dei fatti storicamente verificatisi ma giuridicamente indifferenti“. Non vi sarebbe, in tal senso, alcuna (illogica) dissociazione o scarto tra efficacia estintiva (del decorso del tempo) e sua realizzazione, situandosi, invero, l’effetto (estintivo) de quo, nella categoria modale dell’effettività, nella quale il relativo effetto sorge nel preciso momento in cui si conclude il fatto giuridico condizionante (contrariamente alle categorie modali, prospettiche, della necessità e della possibilità, ove vi è dissociazione tra effetto e sua realizzazione). In altre parole, il rigore logico del c.d. principio di simultaneità giuridica (Falzea), fondato sulla corrispondenza biunivoca tra perfezione della fattispecie condizionante (decorso del tempo) ed efficacia condizionata (estinzione del reato per carenza dell’interesse dello Stato a esercitare la pretesa punitiva), non (ammette o) lascia spazio alla configurazione della  verifica sull’ammissibilità della cognizione del ricorso (“cognizione dei motivi propostiex art. 609, co. 1 c.p.p. ), quale fatto impeditivo di pronuncia che attiene a profilo distinto, cioé quello, ripetesi,  delle “questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado” (ex artt. 129, 609, co. 2 c.p.p.).

Rispetto a ciò che è lecito enucleare dalla legge vigente, l’interpretazione giurisprudenziale introduce, per ciò, un asserto abusivamente prescrittivo (rectius preclusivo)[28], interpolando la legge suddetta (“l’inammissibilità del ricorso osta all’applicazione ex officio dell’art 129 c.p.p.”). Senonché, disancorato, questo asserto, dal dato normativo positivo (cioé in carenza delle relative condizioni di verità), unico riferimento in grado di attribuire efficacia giuridica alle proposizioni de quibus, non pare suscettibile di essere accolto nell’ordinamento penale fino a che il legislatore non dica (rectius prescriva) che l’efficacia dell’art 129 c.p.p. (norma di favore applicabile d’ufficio) postuli esame del merito dell’impugnazione. In altre parole, la pronuncia di inammissibilità del ricorso non potrebbe essere fatto giuridico (processuale) dotato della pretesa efficacia preclusiva, o meglio, sarebbe fatto (processuale), ma non giuridico (e per ciò non condizionante) rispetto all’effetto preclusivo de quo, in assenza di norma che tale effetto gli conferisca. Anzi, essendovi norma che, per contro, mantiene separati il profilo del merito dell’impugnazione (art. 609,co. 1 c.p.p.) da quello delle questioni (comunque rilevabili) espressione del favor rei (art. 609, co. 2 c.p.p.), la cennata preclusione sarebbe non solo surrettizia, ma addirittura incompatibile con il vigente ordinamento.  In ogni caso, le relative questioni, dicevasi, sono rimaste inesplorate (o affrontate apoditticamente), benché costituissero (e costituiscano), tuttavia, il presupposto indefettibile dell’esito giurisprudenziale, il quale, confinato in un contesto normativo che sul punto non offre spunti ermeneutici (o ne offre addirittura di contrari), non potrebbe, ripetesi, trovare accoglienza nell’ordinamento vigente, onde pervenire al risultato ricercato. Per questi motivi, si ritiene illegittimo l’approdo rigoristico della Corte di Cassazione, il quale fornisce un’interpretazione uniforme, ma surrettizia, della legge, oltre che contraria al principio del favor rei, causa di effetti nefasti in punto di coerenza sistematica, tanto più gravi perché conseguiti in vista di un supposto fine etico.
Carlo Manca

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GIURISPRUDENZA CITATA
Cass., pen. Sez. I, 8 ottobre 1990.
Cass., pen. Sez. Un., 11 novembre 1994.
Cass., pen. Sez. Un., 24 giugno 1998, n. 11493.
Cass., pen. Sez. Un., 30 giugno 1999, n. 15.
Cass., pen. Sez. Un., 22 novembre 2000, n. 32.
Cass., pen. Sez. Un., 27 giugno 2001, n. 33542.
Cass., pen. Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 23428.
Cass., Pen., Sez Un., 25.03.2016, n. 12602.

[1]                      Scella, Il vaglio d’inammissibilità dei ricorsi per cassazione, Torino, 2006, pp. 135-136, secondo la teoria giusrealista dell’interpretazione, anche il giudice più fedele alla legge non può, in qualche senso, non creare diritto. Di qui l’aporia per cui il giudice non deve creare diritto, eppure non può non crearlo
[2]                      Marafioti , Selezione dei ricorsi penali e verifica d’inammissibilità, Torino, 2004, p. 152.
[3]                   Ciavola, Le Sezioni Unite superano la tradizionale distinzione tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute e pongono un importante freno alla prassi dei ricorsi manifestamente infondati o pretestuosi, in Cass. Pen., 2001, p. 2988.
[4]                    Ibidem.
[5]                    Ibidem; Marafioti, op.  cit, p. 135.
[6]                    Così in Cass., Sez. Un., 22 novembre 2000, n. 32
[7]                   Orlandi, Se la condanna è per un reato prescritto, in D&G, 2005, p. 58; va ricordato che il giudice a quo, pur in presenza di una causa sopravvenuta dell’impugnazione da lui rilevabile (omessa presentazione dei motivi, presentazione dei motivi in violazione delle prescrizioni concernenti la forma il tempo ed il luogo, omessa esecuzione delle notificazioni prescritte a pena di decadenza, rinuncia all’impugnazione), aveva il dovere di rimettere gli atti al giudice ad quem, ai sensi dell’art 208 del Codice Rocco, nel caso in cui dovesse trovare applicazione l’art 152 c.p.p. del 1930.
[8]                    Cass., Sez. Un., 22 novembre 2000, n. 32, cit.
[9]                    Ibidem; “per i motivi manifestamente infondati e per quelli non consentiti, il legislatore del 1988 ha, poi, soppreso la disposizione che conferiva al difensore la potestà di far trattare il ricorso in pubblica udienza”.
[10]                  Scella, op. cit., pp. 138-139.
[11]                  Ibidem; Orlandi, op. cit., p. 59.
[12]                Orlandi, op cit., p. 61; Presutti, Ancora un intervento delle Sezioni Unite in tema di inammissibilità della impugnazione e declaratoria ex art 129 c.p.p., in Cass. pen., 2000, p. 843.
[13]                  Ciavola, op. cit., p. 2990.
[14]                  Orlandi, op cit. p. 62
[15]          Anche il vizio derivante dalla cosiddetta genericità dei motivi viene attratto nella sfera delle cause di inammissibilità originarie, facendosi leva sull’art. 581 lett. c) c.p.p.. Va detto che le Sezioni Unite sembrano individuare nell’art. 581 la linea di confine tra cause originarie e cause sopravvenute. “Ma resta il fatto che nella successiva evoluzione giurisprudenziale il richiamo è stato inteso come operato all’art. 591 c.p.p.”, così Scella, op. cit., pp. 140-141 (nota 94); Marafioti , op. cit, p. 139.
[16]                  Scella, op. cit., pp. 143-144.
[17]              Carnesecchi, Gli ermellini: addio tattiche dilatorie, in D&G, 2006, p. 45; Scella, op. cit., pp. 145-147; Orlandi , op. cit., p. 62.
[18]                  Cass., Sez. Un., 22 novembre 2000, n. 32, cit.
[19]                  Scella, op. cit., p. 147.
[20]        Cass., Sez. Un., 22 novembre 2000, n. 32, cit., in cui si precisa che, frequentemente, la manifesta infondatezza “si traduce nella proposizione di censure caratterizzate da evidenti errori di diritto nella interpretazione posta a sostegno del ricorso, il più delle volte contrastate da una giurisprudenza costante e senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l’opposta tesi, ovvero invocando una norma inesistente nell’ordinamento”
[21]                   Orlandi, op. cit., p. 63.
[22]                   Cass., Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 23428
[23]             Punta su questo aspetto Marafioti, op. cit., p. 141 ss.; Nega la soverchia influenza di finalità anzidetta Scella, op. cit., p. 148, secondo il quale “si tratta di un orientamento giurisprudenziale capace di condurre a esiti altrettanto apprezzabili pure laddove l’impugnazione inammissibile non sia stata proposta a fini dilatori, nell’intento di ottenere la prescrizione. È quanto avviene, ad esempio, nel caso di prescrizione maturata prima della pronuncia della sentenza d’appello, ma non rilevata né dedotta nel corso del medesimo giudizio di secondo grado”(Cass., Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 23428, cit.)
[24]                  [24] Marafioti , op. cit., p. 142.
[25]                  [25] Ciavola , op. cit., p. 2992.
[26]                  [26] Ibidem.
[27]                  [27] Marafioti, op. cit., pp. 142-143.
[28]        Varzì, Nolte, Rohatyn, Logica, Milano, 2004: “la distinzione tra un’asserzione (o una proposizione) e un enunciato usato per esprimerla è importante. Un enunciato può essere ambiguo o dipendente dal contesto, e può quindi esprimere una qualsiasi di due o più asserzioni – anche asserzioni che hanno valori di verità opposti”

Rifiuto di sottoporsi ad accertamento del tasso alcoolimetrico e norme sostanziali e procedurali inerenti…

1. Tizio è imputato del reato di cui “all’art. 186, comma 7, in relazione al comma 2, lett. c) d. lgs. n. 285/92, per aver guidato l’autovettura […], in evidente stato di ebrezza, rifiutandosi di sottoporsi ad accertamento del tasso alcolimetrico. Accertato in […]”;

2. egli a seguito del sinistro verificatosi in data …, veniva portato in ambulanza al Pronto Soccorso di …, “dopo l’incidente sono stato prelevato dai ragazzi del 118 e sono stato accompagnato in ospedale”;

2.1 non fece in tempo ad interagire con i Carabinieri giunti a seguito di segnalazione dalla Centrale Operativa e che, per questo, chiesero alla Struttura Ospedaliera, di sottoporre lo stesso alle analisi del sangue (cosi come da dichiarazione …);

2.2 nell’incidente aveva subito frattura completa composta del malleolo tibiale mediale, frattura del malleolo peroneale, frattura completa del collo dell’astragalo art. tibiotarsica dx;

3. relativamente ai fatti di imputazione: a Tizio è contestato il rifiuto di “sottoporsi all’accertamento del tasso alcolimetrico, rilevante ex art. 186 comma 7 in rel. al comma 2 lett. c) d. lgs. n. 285/92”;

3.1 sul punto: la Legione Carabinieri di … inoltrava mezzo fax ( “tramite la nostra centrale operativa, si chiama la centrale operativa, hanno gli stampati e viene fatta richiesta [..] via telematica, via fax…”) al Presidio Ospedaliero di …: “richiesta accertamenti urgenti sulla persona (Art. 654 CPP) nei confronti di nato a il, residente a”;

3.1.1. l’agente incaricato richiedeva al responsabile pro tempore della Struttura, ai sensi degli “artt. 186 comma 5 (sostanze alcoliche) e 187 comma 3 (sostanze stupefacenti) del C.D.S, […] che siano effettuati[…] gli accertamenti medico legali tendenti a rilevare l’eventuale stato di ebbrezza alcolica. O se abbia assunto sostanza stupefacente, attraverso prelievo ematico ed il contestuale prelievo di liquidi biologici (saliva-urine)”;

3.1.2. ovvero, in altri termini, che fossero compiuti accertamenti urgenti, rilevanti ex artt. 224bis, 359 bis, o se non fosse, ex art. 354 c.p.p.;

3.2 la richiesta di accertamento è illegittima perché:

3.2.1 non costituisce atto diretto ex art. 354 c.p.p., ed omette di dare avviso della facoltà di nominare il difensore, implicante in Tizio legittimo rifiuto;

3.2.2 l’agente di p.g., a mezzo fax (?), inoltra, in data …, richiesta di accertamenti urgenti a carico di Tizio, ovvero primo atto compiuto “con l’intervento della persona sottoposta alle indagini” rilevante ex art. 161 c.p.p., e per il quale Tizio non è stato invitato ad eleggere domicilio;

3.2.2 in difetto di quanto ex art. 354 c.p.p., e combinato ex art. 356 c.p.p. e 114 disp. att. c.p.p., l’agente di p.g., quantunque lo avesse redatto a mezzo fax, ometteva di dare avviso a Tizio ex 161 c.p.p. e conseguentemente ometteva di dare ex art. 356 c.p.p.avviso al difensore;

3.2.2.1 l’elezione di domicilio, successivamente sottoscritta da Tizio, e in atti del processo, avviene in data 04.01.2012, cioè quattro giorni dopo (!) la richiesta di accertamenti urgenti;

3.2.2.2. pertanto si rileva nullità ex art. 178 c.p.p.;

e ancora,

3.3 difetta del requisito di accertamento legittimo ex art. 354, implicante in Tizio legittimo rifiuto;

3.3.1 sul rifiuto di sottoporsi all’accertamento del tasso alcolimetrico, contrariamente a quanto contestato, si evince dall’estratto della cartella clinica che, Tizio in data … firmava “consenso informato, consenso informato al prelievo per la ricerca dell’HIV e consenso intervento chirurgico”, che attestano che egli ha prestato consenso, sottoponendosi nella medesima data ai prelievi ematici ritenuti necessari;

3.3.2 e anche, conferma ciò in sede di esame imputato: “io quando sono arrivato lì mi hanno chiesto -Firmi il foglio che deve fare le analisi- ADR. Sì, io ho preso il foglio e glielo ho firmato […] Firmi questo foglio che serve per fare gli esami”;

3.4 quindi Tizio prestava consenso per sottoporsi agli esami presso la Struttura Sanitaria;

4. peraltro, da un’analisi dei commi 3,4 e 5 richiamati dall’art. 186, 7 c., cds., gli accertamenti qualitativi devono essere effettuati con “strumenti e procedure determinati dal regolamento” e “secondo le direttive fornite dal Ministero dell’Interno, nel rispetto della riservatezza personale e senza pregiudizio per l’integrità fisica” e “non ad accertamenti qualitativi invasivi”;

4.1 ora, nello specifico, non si ravvisa dettagliatamente quale tecnica o esami la struttura ospedaliera debba utilizzare in concreto per effettuare l’indagine qualitativa ai fini investigativi predetti;e surrettiziamente, nella prassi, si riconduce all’alveo del rifiuto ex art. 186, 7 comma, anche il rifiuto del prelievo ematico (non si ravvisa neppure nell’art. 379 reg attuazione cds, che più specificatamente individua quale apparecchiatura idonea, solo l’etilometro);

4.1.1 l’espressione “accertamento” di cui al 7 comma è riferita genericamente a “prova con etilometro”, “sintomatologia”, nonché “verifiche sanitarie”, con unico limite quello della non invasività delle operazioni, ma, se è dettata disciplina speciale rispetto ad essa, rilevante ex art. 224 bis e 359 bis, non può essere punito ex art. 186, 7 comma un rifiuto inoperante rispetto ad essa;

4.2 ed invero, i provvedimenti restrittivi della libertà personale, quali tra essi il prelievo ematico, espressamente previsti ex artt. 224 bis e 359 bis c.p.p., sono soggetti al principio di riserva di legge e di giurisdizione: ovvero se la legge ordina modi e casi per cui gli stessi possano essere apprestati, anche il prelievo ematico, quale forma di restrizione della libertà personale, deve soggiacere ai limiti suddetti;

4.2.1. peraltro, nel caso specifico, vengono richiesti accertamenti di natura anche ematica (cfr. sub 3.1.1) quando invece, poi, il rifiuto è considerato come rifiuto a sottoporsi a indagini ex art. 186 7 comma, che come detto sopra, ammettono al massimo l’utilizzo dell’etilometro (cfr. sub 4.1);

4.2.1 il “Protocollo operativo per gli accertamenti richiesti ai sensi del comma 5 dell’art. 186 del D.L.vo 30.4.1992 n. 285 e successive modificazioni sui conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti a cure mediche presso le strutture sanitarie di base ovvero presso quelle accreditate o comunque equiparate”, presentato il 25 febbraio 2005”, ammette in via subordinata l’ammissibilità del prelievo ematico, previo consenso dell’interessato; e se questo è dato, diviene pertanto, elemento di validità dell’esame;

4.2.2. ed invero, per tali ragioni, “in tema di accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza alcolica il prelievo ematico effettuato in assenza di consenso produce una violazione ex art. 13 Cost. essendosi proceduto ad un rilievo invasivo consentito dalla legge solo in presenza dell’autorizzazione del soggetto” (cfr. ex multis: Cass. n. 4862/2003; Cass. n. 22599/2005; Cass. n. 20236/2006; Cass. n. 38537/2007; Cass. n. 10286/2008; Cass. n. 4118/2008; Cass. n. 1827/2009);

4.2.3 per giunta, una volta appurato che il prelievo a fini investigativi, necessita per essere legittimamente speso, del consenso dell’indagato, ciò implica che il rifiuto opposto all’esame invasivo, e direttamente privo di influenze sull’accertamento diagnostico dell’interessato, deve ritenersi legittimo: “la libertà personale si estrinseca come diritto nel senso che l’opposto potere di coazione personale, di cui lo Stato è titolare, non sia esercitato se non in determinate circostanze e col rispetto di talune forme. In nessun caso l’uomo potrà essere privato o limitato nella sua libertà se questa privazione o restrizione non risulti prevista dalla legge e se non vi sia provvedimento dell’autorità giurisdizionale che ne dia le ragioni” (C. Cost. n. 56/1956);

4.2.3.1 “è diritto del soggetto opporre rifiuto al prelievo ematico se questo è finalizzato unicamente all’accertamento di eventuale presenza di sostanze alcoliche nel sangue, trattandosi di un esame invasivo, con violazione dei diritti della persona” (Cass. sez. IV n. 26108/2012);

4.3 ergo, per principio di “non contraddizione”, l’ordinamento non può prevedere la sanzionabilità dell’esercizio di un diritto;

4.3.1. se anche così fosse, ma nello specifico Tizio ha legittimamente prestato consenso sottoponendosi agli esami, tale contraddizione è facilmente risolvibile anche attraverso il riconoscimento della scriminante dell’esercizio di un diritto, operante ex art. 51 c.p.: diritto di opporsi legittimamente ad un esame invasivo (ininfluente per la propria salute) richiesto per mere finalità investigative: “in tema di esercizio di un diritto, di cui all’art. 51 cod. pen., nella nozione di diritto scriminante rientra ogni potere giuridico di agire, quale che sia la relativa denominazione adottata, allorché la legge attribuisca l’esercizio di una “potestas” esercitabile” (Cass. sez. III n. 9464/1995);

Maria Carla Sunch

“I GABELLIERI” (ricevuto da Antonio Urtis)

“I GABELLIERI”
visti da uno scrittore arabo
di Siviglia del Xii Secolo (*)

I gabellieri.  

Il gabelliere è la peggiore delle creature che Allah abbia messo sulla terra, simile alla  vespa che è stata creata per nuocere, e non per essere di qualche utilità.
Egli non fa  che occuparsi di far del male ai musulmani e vi si applica senza sosta, aprendo la  porta a chiunque possa far loro un torto e chiudendola a chiunque possa loro  procurare bene e profitto.
Egli è maledetto da Allah e dall’intera popolazione.
Il qadî deve fargli prestare giuramento, delimitare esattamente i suoi poteri e non lasciargli  disporre dei beni del pubblico a suo piacimento e secondo quanto gli sembri  conforme ai propri interessi. Egli gli parlerà e lo biasimerà senza ambagi.
Il vizir, in  presenza del qadî, gli fisserà la misura di ciò che egli riceverà sui prodotti soggetti a  gabella, senza che egli possa aumentarla o diminuirla. Nel caso in cui esigesse di più,  sarà punito, imprigionato e bastonato.
…..  … ( Il qadî ) sorveglierà il gabelliere e lo sottoporrà a controllo permanente, perché  questo personaggio non ha, né coscienza professionale, né religione e decide a suo  piacimento sulla proprietà del popolo.  …
Inoltre il gabelliere è il vero maledetto, lui che terrorizza la gente avvalendosi costantemente della sua autorità superiore, il che gli consente di manifestare le sue  richieste e di saccheggiare la gente ingiustamente, senza che le sue iniziative siano  ratificate in alto luogo. Non bisogna, allora, disinteressarsi di quanto lo riguarda.
Nel  caso in cui il vizir cercasse di coprirlo dicendo: «Egli agisce in tal modo per  l’interesse dello Stato!», gli si risponderà: «è dal suo denaro che il sovrano ricaverà  veramente vantaggio, ovvero dalla consapevolezza di aver bene adempiuto ai suoi doveri? Non si tratta, prima di ogni cosa, dei beni del popolo?».
(*) Dal trattato «Taghyir al – munkar» (la correzione dei torti) sulla vita urbana e i  corpi di mestiere di Ibn Abdun, scrittore arabo di Siviglia, XII secolo, sotto il regno della dinastia araba degli Almohadi.
Traduzione (quasi) letterale dall’arabo di Enrico Altieri.

La Corte di giustizia UE contro l’Agenzia delle Entrate: la sostanza prevale sulla forma

La Corte di giustizia UE contro l’Agenzia delle Entrate : la sostanza prevale sulla forma

Posted on 19/01/2015 by simonetta

http://www.fiscoediritto.it/ue-internazionali/il-diritto-alla-detrazione-iva-prevale-sui-formalismi/

 

La Corte di giustizia UE, con sentenza dell’11 dicembre 2014, causa C-590/13 Idexx Laboratories Italia srl contro Agenzia delle Entrate ha affermato che il diritto alla detrazione dell’IVA afferente agli acquisti intracomunitari di beni non può essere negato per via della mancata integrazione e registrazione delle relative fatture. Ancora una volta, dunque, i giudici comunitari confermato il principio secondo cui la sostanza prevale sulla forma.

Il giudizio della Corte assume particolare rilevanza poiché, come può desumersi dalle parti coinvolte nel procedimento, la fattispecie esaminata riguarda alcune norme del nostro ordinamento, spesso (seppur non sempre ultimamente) interpretate da prassi e giurisprudenza in ossequio al principio della prevalenza della forma sulla sostanza.

La questione pregiudiziale verte sul diritto alla detrazione dell’IVA relativa agli acquisti intracomunitari di beni effettuati da una società italiana (Idexx), che gode del pieno diritto di detrazione dell’imposta afferente alla propria attività d’impresa, ma che non aveva operato nel rispetto degli obblighi previsti dagli artt. 46 e 47 del DL 331/93. La società, infatti, non aveva applicato il meccanismo del reverse charge, ossia non aveva provveduto a numerare ed integrare le fatture ricevute dai fornitori comunitari (indicandovi l’aliquota Iva applicabile e l’imposta dovuta) e ad annotare le stesse sia nel registro IVA degli acquisti intra-comunitari che nel registro IVA delle vendite intra-comunitarie.

L’Agenzia delle Entrate, a seguito di verifica fiscale, aveva contestato il mancato rispetto dei suddetti obblighi e conseguentemente aveva proceduto a rettificare la dichiarazione annuale IVA, disconoscendo il diritto alla detrazione e pretendendo il versamento dell’imposta; l’Agenzia delle Entrate aveva, inoltre, applicato una sanzione pari al 100% dell’imposta.

Chiamata ad esprimersi sulla questione, la CTR Lombardia confermava la posizione dell’Agenzia delle Entrate, osservando che l’omessa registrazione delle fatture in questione costituisce “una violazione attinente non alla forma, bensì alla sostanza, integrando un’infrazione tale da giustificare la rettifica o l’accertamento”.

Forte della convinzione che gli acquisti intracomunitari –non facendo sorgere né debiti né crediti d’imposta- non producono effetti sostanziali, ma solo obblighi formali di annotazione “di una partita di giro nei due registri IVA” è ricorsa alla Corte di Cassazione.

I supremi giudici hanno rimesso la questione alla Corte di giustizia ritenendo che la soluzione della controversia risieda nell’interpretazione da dare alla sentenza Ecotrade (cause riunite C-95/07 e C-96/07 dell’8 maggio 2008)

Ebbene, come ricordato dai supremi giudici, il caso Ecotrade (i cui principi sono stati confermati in occasione della causa C-284/11 del 12 luglio 2007 EMS Bulgaria Transport OOD) ha generato, nell’ordinamento giuridico nazionale, due differenti filoni interpretativi:

– un primo filone in base al quale il diritto alla detrazione è subordinato al rispetto degli obblighi -aventi dunque natura sostanziale- di autoliquidazione dell’imposta e di duplice registrazione della fattura comunitaria debitamente integrata (in tal senso Cass. 20 marzo 2013 n. 6925, Cass. 11 settembre 2013 n. 20771, Cass. 23 ottobre 2013 n. 24022);

– un secondo filone in base al quale il diritto alla detrazione sorge nel momento in cui l’IVA diviene esigibile (come prescritto dall’art. 19 che recepisce le  previsioni di cui all’art. 167 della Direttiva 2006/112/CE) e non a seguito del compimento delle formalità previste per l’esercizio di tale diritto, con la conseguenza che queste ultime hanno mera natura formale (in tal senso Cass. 5 maggio 2010 n. 10819; Cass. 8 aprile 2013 n. 8038; Cass. 6 settembre 2013 a cui fanno eco le posizioni assunte dall’Agenzia delle Entrate dapprima con RM 6 marzo 2009 in recepimento del caso Ecotrade e, più di recente, con C.M. 18 dicembre 2013 n. 35/E); secondo tale orientamento, dunque, il mancato adempimento degli obblighi formali non determina il venir meno del diritto alla detrazione, ma può giustificare l’applicazione di sanzione amministrative.

I giudici europei confermano che la sentenza Ecotrade deve essere interpretata nel senso indicato dal secondo filone. Invero, in ossequio al principio di neutralità dell’imposta, il diritto alla detrazione dell’IVA deve essere riconosciuto se gli obblighi sostanziali sono soddisfatti e ne sia data prova certa. Ciò vale anche se il soggetto passivo non ha adempiuto taluni obblighi formali, a patto però che la violazione dei requisiti formali non abbia l’effetto di impedire che sia fornita prova certa del rispetto dei requisiti sostanziali.

In caso di acquisti intracomunitari di beni, i requisiti sostanziali esigono che:

– gli acquisti siano stati effettuati da un soggetto passivo;

– il soggetto passivo sia debitore dell’IVA relativa a tali acquisti;

– i beni siano utilizzati al fine di porre in essere operazioni imponibili (o, deve intendersi, altre operazioni che danno diritto alla detrazione dell’imposta).

Certamente non è casuale che la Corte di giustizia non richiami, nel suo ragionamento, le disposizioni di cui all’art. 242 della Direttiva n. 2006/112/CE, che pone a carico di ogni soggetto passivo l’obbligo di tenere una contabilità sufficientemente dettagliata per consentire l’applicazione dell’IVA e il suo controllo da parte dell’Amministrazione fiscale. Invero, questa disposizione non può far giungere ad una conclusione diversa rispetto a quella pronunciata.

In nuce, ciò che importa, ai fini del diritto alla detrazione dell’IVA, è l’effettività dell’acquisto.

Ed infatti, quando l’acquisto viene meno, viene meno anche il diritto alla detrazione ad esso connesso, come sostenuto dalla stessa Corte di giustizia nella sentenza del 13 marzo 2014, causa C-107/2013, Firin OOD.  La causa aveva ad oggetto il diritto alla detrazione dell’imposta assolta su una fattura di acconto per una cessione di beni che non si è mai perfezionata. Posti di fronte ad un simile mutamento delle condizioni esistenti al momento della fatturazione dell’anticipo, i giudici comunitari concludono che l’amministrazione finanziaria ha titolo per esigere la rettifica dell’IVA inizialmente detratta, oltretutto a nulla rilevando che il fornitore resti debitore di tale imposta e non abbia rimborsato l’acconto.

Si auspica adesso un indirizzo unitario della Corte di Cassazione che, anche successivamente al rinvio pregiudiziale, ha continuato a prendere posizioni altalenanti prediligendo a volte la forma (si veda Cass. 12 febbraio 2014 n. 3107), a volte la sostanza (si veda Cass. 21 maggio 2014 n. 11168).

Simonetta La Grutta

Pdl: no taglio 30% parcelle avvocati con gratuito patrocinio Il consigliere Rosso invita Ordine legali in Commissione

Pdl: no taglio 30% parcelle avvocati con gratuito patrocinio Il consigliere Rosso invita Ordine legali in Commissione (ANSA) – GENOVA, 28 OTT – “Grazie alle segnalazioni dell’avvocato Roberto Cassinelli ho chiesto un’audizione urgente degli organi regionali dell’Ordine degli Avvocati liguri, in Commissione I della Regione (Affari istituzionali), a seguito della notizia relativa alla riduzione prevista all’interno della legge di stabilita’ del 30% delle parcelle degli avvocati che accetteranno incarichi con il gratuito patrocinio. Questo tema, benche’ non di diretta competenza della Regione, e’ molto importante e tocca da vicino anche i nostri concittadini perche’ si rischia di ledere un diritto importantissimo che e’ quello alla difesa”. Lo fa sapere il consigliere regionale del Pdl Matteo Rosso, che spiega: “L’abbattimento di queste parcelle operera’ per le liquidazioni che verranno pagate dopo la data di entrata in vigore della legge di Stabilita’ e cioe’ dopo l’1 gennaio 2014 ed avra’ valore retroattivo: per cui, si applichera’ anche ai procedimenti che, chiusi per esempio il 10 gennaio, si sono svolti prima ancora dell’approvazione della riforma in commento”. L’avvocato Cassinelli spiega: “Il gratuito patrocinio non e’ mai stato un grande affare per gli avvocati. Chi accetta l’incarico lo fa piu’ per una scelta civica che non per finalita’ lucrative. Come se cio’ non bastasse, la legge di stabilita’, aumenta ancor di piu’ i tagli nei confronti dei professionisti e, peraltro, lo fa in modo retroattivo”.

Legge di stabilità 2014: giustizia più cara, avvocati più poveri

GIUSTIZIA 28 OTTOBRE 2013, 12:19

Legge di stabilità 2014: giustizia più cara, avvocati più poveri

Le novità in tema di giustizia nella legge di stabilità 2014: compensi avvocati, patrocinio gratuito e tasse

Con la legge di stabilità 2014, giustizia e amministrazione costeranno di più. Non c’è solo la casa a fare da “riserva” per le casse pubbliche, in vista dei prossimi tre anni. Anche procure, tribunali ed enti  pubblici chiederanno esborsi sempre maggiori, naturalmente a discapito dei contribuenti che finanziano quella stessa spesa e, talvolta, anche degli stessi professionisti.

Mentre, infatti, è ormai comprovato che, in termini assoluti, le nuove tasse sulle abitazioni chiederanno a proprietari e inquilini un esborso di gettito superiore per circa un miliardo, piccoli, ma significativi rincari sono in arrivo anche per gli operatori della giustizia, le pubbliche amministrazioni e gli utenti di questi due mondi, mentre i corrispettivi per le prestazioni offerte vengo progressivamente ridotti.

Innanzitutto, viene innalzata da 8 a 27 euro la cifra richiesta per l’anticipazione delle spese di notifica per opera delle cancellerie: la celebre marca da 8, si appresta a diventare “marca da 27″, per un esborso superiore a oltre tre volte del valore attuale. Si tratta, insomma, dell’obolo richiesto per le cause civili, che farà lievitare gli oneri delle vertenze, tra spettanze degli avvocati – ora tarate secondo le linee guida del contributo unificato, ma si attendono le novità sui compensi – e le spese di amministrazione.

L’incremento della quota per spese di cancelleria, porterà in dote al sistema statale circa 44 milioni di euro in più, che dovrebbero consentire l’assunzione in ruolo di 330 magistrati vincitori di concorso ancora esclusi.

Non tutti i legali, però, passano indenni dal bisturi della legge di stabilità 2014: per quelli pubblici e appartenenti al libero foro, in caso di patrocinio gratuito, è in arrivo un abbassamento della parcella. Ai difensori delle PA, nel caso di sentenza a favore dell’ente, verrà erogato un pagamento pari al 75% del dovuto, mentre il patrocinio gratuito diventa sempre più tale, venendo ridotto di un ulteriore terzo del totale.

Poi, come illustrato nella pagina riepilogativa della legge di stabilità 2014, il disegno di legge attualmente in Senato prevede che per sostenere gli esami per iscriversi all’albo, o da cassazionisti, vadano versati rispettivamente 50 e 75 euro, che andranno a foraggiare le spese per lo svolgimento delle prove.

In particolare, è previsto un gettito di 3 milioni di euro dalle iscrizioni per l’accesso al foro, più altri due milioni divisi in parti diseguali tra cassazionisti, notai e magistrati.

Infine, la novità per i processi amministrativi generali è che gli enti dovranno versare 16 euro per ogni documento trasmesso per via telematica alla PA o che essa a diramato tramite questo canali.

 

http://www.leggioggi.it/2013/10/28/legge-di-stabilita-2014-giustizia-piu-cara-avvocati-piu-poveri/

Cassazione: guida in stato di ebbrezza per l’ubriaco che dorme in auto in sosta

Se la “fermata” sarebbe “guida”, mai sarebbe trasgredibile il divieto di “fermata”, se la “guida” sarebbe “fermata”, mai sarebbe trasgredibile il divieto di guida, i due divieti coesisterebbero e si annullerebbero a vicenda, senza sosta.
A tale stregua, peraltro, diverrebbe possibile mettere alla guida (de jure, e con ciò punirlo), il conducente che fosse in “fermata” (finanche in attesa della propria riabilitazione psicofisica, al fine della ripresa corretta della guida),ed anzi dormisse….
Lo pensa Cassazione penale, convinta al punto di condannare la guida da fermo.
Ebbene, quando la fermeremo, le impediremo di guidare, noi che crediamo nella distinzione dei due stati, nella necessità di applicarla?
Pietro Diaz

l’articolo di Anna Costagliola su www.diritto.it