1.Con l’approvazione dell’art 162 ter cp (che, collocato dal codice fra le cause di estinzione del reato, ne introduce una propria – rubricata “estinzione del reato per condotte riparatorie”- per la quale, “nei casi di procedibilità a querela soggetta a remissione, il giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa, quando l’imputato ha riparato interamente, entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento, il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento e ha eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato…..” (notisi che i casi di procedibilità a querela soggetta a remissione sono sempre più infrequenti, al pari di quelli di procedibilità a querela anziché “d’ufficio”.
Perché lo Stato Penale dell’ultimo ventennio, dall’avvento del potere legislativo forzitalico e pidiessino, della sua Polizia e Magistratura, ha puntato ad appropriarsi, espropriandole al popolo, delle condizioni della procedibilità dei reati, monopolizzando l’iniziativa penale ed il suo controllo.
E così, quando la procedibilità a querela non abbia potuto essere sostituita da quella d’ufficio, è stata resa irremissibile la querela, perché non sfuggisse la -ambita- preda, una volta afferrata.
E ciò benché la querela fosse indice e testimonianza, e retaggio, della attribuzione al popolo della iniziativa penale; benché democratizzasse l’ infernale meccanismo, unico dopo quello bellico, della persecuzione e dell’afflizione d’esso stesso).
Con l’approvazione di quella disposizione, per quei casi, dicevasi, è stata chiamata ad estinguere i reati (cioè a fermarne il processo e, quindi, a prevenire sentenze assolutorie o condannatorie) l’attività dell’accusato (restitutoria del bene offeso o risarcitoria del suo danno) che per oltre cinquant’anni fu chiamata ad attenuare (fino ad un terzo di quella inflitta) la pena del reato (con l’art 62.n.6 del codice, che comunque continua ad agire nei reati “contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio”, procedibili di ufficio o a querela irremissibile).
Quindi, considerato, da un lato, che il reato di “stalking” (in art 612 bis cp) contiene già la possibilità della sua estinzione nei casi di querela remissibile e di remissione d’essa (la remissione, di fatti, è una causa di estinzione del reato –per art 152 cp- , indifferenziabile, giuridicamente, da qualsiasi altra avesse lo stesso effetto, come quella in parola), da altro lato che, criminologicamente, quel reato è stato ritenuto adeguato ad interagire con una causa di estinzione del reato.
Considerato, d’altronde, che, questa, avendo contenuto patrimonialmente riparatorio, cioè espropriatorio del patrimonio del riparatore, è sanzione ad ogni effetto, sia dell’ordinamento civile (il più realistico ed utilitaristico, umanistico), che dell’ordinamento penale (il più irrealistico ed inutilitaristico, inumanistico), rigonfio di pene pecuniarie (“patrimoniali” appunto, pur se devolute, ma solo nell’era moderna, allo Stato).
Considerato tutto ciò, appare sconsiderato il baccano levatosi nel Paese per la sua applicabilità allo “stalking” (sulla cui genesi culturale e legislativa, la cui (dis)funzione sociale, sul cui ritorno propagandistico ai suoi operatori, sulla cui condizione giudiziaria, segnata da incontinenze e fanatismi accusatori tanto palesi quanto ignorati, peraltro, sarebbe molto da dire non conformisticamente)
2. Leggasi Il FattoQuotidiano.it /Diritti, forse il primo medium (con la edizione cartacea), di propaganda dello Stato Penale e delle sue autorità giudiziarie – polizia e magistratura- (attività mediatica che d’altronde, per lo più trascrittiva delle verbalizzazioni delle or dette, semplifica tanto il lavoro giornalistico quanto la realtà che esso dovrebbe esplorare e trasmettere): Stalking, Giulia Bongiorno “La riforma Orlando indebolisce il reato, sanzione riparatoria applicabile nel 50% dei casi”, “ nei casi in cui la querela si può ritirare lo stalker resterà impunito”. Dove, il timore dell’ “indebolimento del reato” (di cui, invero, uno che, in società fosse difensore anziché accusatore, dovrebbe rallegrarsi), pare sociologare (discutibilmente peraltro), piuttosto che dire diritto, che teorizzare giuridicamente l’evento legislativo. Di fatti: “Siccome la minaccia grave, se non viene reiterata, continua a rientrare tra le querele suscettibili di revoca, è ovvio che con il ddl Orlando alcune donne saranno indotte a rimetterla”.
Cioè, l’avvocato sembra ritenere che la estinzione del reato, di cui all’art 162 ter cit., avvenga se la querela sia stata rimessa. Non coglie che, se la querela fosse rimessa, prima di ogni altra (perché subito arrestante il processo, ogni attività di istruzione o di giudizio), opererebbe la causa di estinzione relativa, non quella di cui alla disposizione in parola. Anzi, questa potrebbe operare soltanto se la querela non fosse rimessa.
Ciò posto, è del tutto immaginifica la previsione che “le donne” (eppure, il reato potrebbe essere stato querelato da un uomo, perché la protezione che esso fornisce non è riservata “alle donne”: per ciò anche la soggettività passiva, il genere della persona offesa, non paiono adeguatamente percepiti) saranno “indotte a rimetterla”. Se mai sarebbero indotte a mantenerla, quando, realisticamente ed utilitaristicamente, volessero nutrirsi compensativamente di sanzioni solo patrimoniali, non personali (con sensibilità e misura differenti da altre).
Peraltro, il pensiero dell’avvocato è indubitabile : “La nuova legge prevede che in caso di remissione di querela ci siano condotte riparatorie e l’estinzione del reato”. Dunque, per lei, la remissione della querela è condizione di operatività (non della causa di estinzione inerente ma) della causa di estinzione per condotta riparatoria. Tanto che insiste, convinta della sua illazione: “Quindi, lo stalker, che solitamente ossessiona per amore, ossessionerà la vittima per indurre il ritiro della querela o meno? Forte della mia esperienza, dico di sì. Sarà facile ottenere il consenso della persona offesa”. Dove è manifesta la riduzione della nuova causa di estinzione del reato alla vecchia, della remissione della querela, l’annientamento di quella in questa. Lo evidenzia la illazione ulteriore sulla “facil(ità)” dell’ottenimento del “consenso della persona offesa”, che, quindi, ritiene indispensabile al funzionamento del meccanismo estintivo di art 162 cit.. Mentre esso, ovviamente essenziale nella remissione della querela (che consta di un atto giuridico valido ed efficace se volontario), è inessenziale nella condotta riparatoria, perché questa è operabile “sentite le parti e la persona offesa”, sentite ad integrazione, non a condizione, della valutazione decisoria del giudice. Or bene, a questo punto non sorprende che l’avvocato, in tale postura cognitiva, dia sfogo a locuzione pseudogiuridica, extracuriale, e ad un tempo (e forse per ciò) inesatta: e non è vero che l’autore della condotte riparatorie resterebbe “impunito”, perché, come dicevasi, la sua stessa condotta è pienamente sanzionatoria, punitoria (oltre che socialmente restauratoria della ”pace” : viene alla mente che, prima della statalizzazione della pena -d’epoca antecedente e successiva ma anche in parte contemporanea, al diritto penale romano statale- , valeva e vigeva un diritto penale privato, nel quale la pena per espropriazione o diminuzione del patrimonio dell’offensore – e sia nella “vendetta” dell’area mediterranea occidentale che nella “aida” dell’area germanica – era preminente e dominante: perché intenta, anzitutto, alla restaurazione della “pace” sociale). Quindi anche la prognosi di un ritorno al delitto, dell’ “impunito” appartiene speculativamente al livello linguistico dell’aggettivo. Non va tuttavia trascurato quanto l’avvocato, concludendo, coscienziosamente annota: “Non sarei affatto stupita se alcune donne che assisto mi dovessero chiedere di fare un passo indietro nei prossimi giorni non sentendosi tutelate”. A consolarla, comunque, giunge la lettura del pensiero di due legislatrici, due facitrici, prima che operatrici, del diritto, la seconda delle quali, per di più, un magistrato:Vanna Iori,”deputata del Pd e responsabile del partito per l’infanzia e l’adolescenza”: “Come ha spiegato la presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, la possibilità per il giudice di estinguere il reato in casa di riparazione del danno si applica solo ai reati procedibili a querela remissibile, tra i quali non figura quello di stalking”. Assunto che l’avvocato, giustamente, corregge “sanzione riparatoria applicabile nel 50% dei casi” (di“stalking” procedibile a querela remissibile, certamente previsti).
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Espulsione autoritaria del difensore fiduciario dalla difesa, perquisizione in udienza del suo sostituto e del suo “praticante”…
1. Un avvocato, appreso – dalla relazione di un perito chiamato a dire, davanti ad una Corte, ex art. 70 cpp, intorno alla capacità dell’imputato ottantaquattrenne di stare in giudizio – che colui che difendeva avrebbe “confessato” (di avere commesso l’ omicidio volontario imputatogli) al Direttore della Casa di cura che lo ospitava (“referente” del perito nella occasione);
1.1. sebbene la emergenza fosse processualmente innocua – data la inutilizzabilità se non la inammissibilità, probatorie, della “confessione”- ex art 62 cpp non testimoniabile da alcuno, tanto meno dal perito o dal suo “referente”, poiché:
se la avessero captata non avrebbero potuto riferirla ( ma, soltanto, usarla nell’”accertamento” peritale); se la avessero riferita, essa non sarebbe stata utilizzabile, ex art. 228.3 cpp (se necessario esteso analogicamente all’accertamento ex art. 70 cit);
sebbene, quindi, l’avvocato, potesse attendere che, la “confessione”, si formalizzasse a dibattimento, mediante l’”ascolto” (da chiunque indotto) di chi la avrebbe, direttamente o indirettamente, captata, e lì rigettarla con le suddette ragioni;
1.2 egli tuttavia, per eccesso di zelo che non considerava che lo stato del processo, dibattimentale, non permetteva la immissione di (atti di) “investigazioni difensive” come tali (pur se non ne escludesse il compimento, ex art. 327 bis.2 cpp possibile “in ogni stato e grado del procedimento”), decideva di assumere “informazione”, ex art. 391 bis.2 cpp, dal “referente”.
E, accompagnato da “collaboratori” (ex carabinieri), recatosi nella Casa di Cura (spazio altrui, immaginabilmente impropizio a forzature proprie, garante in sé della correttezza dell’atto.. ), “aperto il verbale”, gli domandava se avesse dato, al perito, informazioni non strettamente “sanitarie”.
Avutane risposta negativa, chiudeva il “verbale”, e ( per ogni eventuale utilità), lo riponeva nel fascicolo di Studio.
2. Appreso ciò (non importa come), l’accusatore pubblico, ignorando anch’egli la inutilizzabilità se non la inammissibilità di quella “confessione” (per le ragioni sub 1.1); temendone la degradazione ad opera dalla “investigazione difensiva” – invero nemmeno depositata con l’apposito fascicolo, in alcuno dei (maggiori) fascicoli del processo ex artt. 391 octies, 391 decies cpp (anzi, nemmeno depositabile, in essi, perchè, ex artt. 431, 433 cpp, formati ben prima del dibattimento); e, quindi, giuridicamente inesistente, e, comunque, inerte (per quanto sub 1.2)- ;
per eccesso di zelo (accusatorio), non dissimile da (ma inverso a) quello del difensore, incurante dello stato del processo (sub 1.2), decideva di acquisire informazione da quel “referente” (ovviamente, con ben altra potenza “investigativa”).
Ed acquisiva, intorno alla “informazione difensiva” (benché, come detto, giuridicamente inesistente e comunque inerte, inoltre inaccessibile, ex art. 362.1-370, cpp: “alle persone sentite dal difensore non possono essere chieste informazioni sulle domande formulate e sulle risposte date”), che, egli, sarebbe stato costretto a dichiarare di non avere detto, al perito, altro che non concernesse la “capacità processuale” dell’imputato.
E inoltre, non pago, esaltato dalla preponderanza della sua forza giudiziaria, decideva di impossessarsi della “investigazione difensiva”. Non decideva, cioe’, di “aspettarla al varco”, al dibattimento (se mai vi fosse andata), e di contrattaccarla dialetticamente in condizioni di parità con la difesa davanti al giudice; bensì di sequestrarla, dopo averla assunta quale effetto di reati di violenza privata e di minaccia commessi dal difensore.
Così, iniziato altro procedimento, con iscrizione, nel registro degli indagati, del difensore e degli investigatori, emetteva decreto di sequestro ex art 253.1 cpp del “documento….presumibilmente verbale di dichiarazioni assunte dal difensore…”, “corpo dei reati di cui sopra”: dove sarebbe stato, lo Studio del difensore.
D’altronde, solo fuori del dibattimento, della pubblica sede della formazione della prova parificante le parti davanti al giudice, egli avrebbe potuto incombere sul difensore, sottometterlo, espropriarlo del documento (anche perché, particolarmente fuori del dibattimento, il difensore non avrebbe potuto rintuzzarlo, privo com’era della sua stessa forza).
3. Così, “pendente” il dibattimento, irrompendo nel “merito” esclusivo d’esso lì solo trattabile, emetteva, dicevasi, decreto di sequestro, benche’ spettante, ex art 253 cpp, al giudice dibattimentale (eventualmente su istanza dell’accusatore medesimo). Giudice che, d’altronde, quando avesse ravvisato la “notizia” dei reati cennati (non prima comunque di apprenderne il contenuto dalla viva voce del “referente”), la avrebbe trasmessa, ex art. 331cpp, all’ufficio del pubblico ministero presso il giudice competente per territorio (i reati sarebbero stati commessi in altra circoscrizione da quella ove egli sedeva); non al procuratore in udienza di quello stesso ufficio, lì solo parte “requirente”.
4. Peraltro, saggiando al volo penalmente, oltre che processualmente, la sortita dell’accusatore:
se presupposto del decreto sarebbero stati reati di violenza privata ex art. 610 cp e di minaccia ex art. 612 cp.;
se , come da logica dell’accusatore, l’informatore sarebbe stato costretto ad una “falsa informazione”, cioè al reato ex art.371 ter cp, la violenza privata sarebbe dovuta essere quella in art. 611, anziche’ in art 610, cp.
Inoltre, essendo, la minaccia, costitutiva della condotta del reato di violenza privata delle due specie, non sarebbe potuta essere, mentre fu, contestata a parte.
D’altronde:
4.1 il decreto di sequestro attribuiva quei reati al difensore (ed agli “investigatori”) benchè fosse privo della autorizzazione del giudice ex art 103 4) ccp.. Ed allegava la “informazione di garanzia” ex art. 369 cpp ( affinché potesse compiersi in contraddittorio quanto annunciava). Ma non prevedeva la perquisizione (per il sequestro), né allegava la “informazione…” relativa. E cio’ mostrava che, individuata la cosa suo oggetto (quale “corpo dei reati”), il decreto avesse individuato anche il luogo ove fosse.
Tutto, quindi, induceva a prevedere che, l’accusatore ( autorizzato o no, dal giudice ex art. 103.4 cpp), sarebbe andato allo Studio del difensore, a sequestrare il “corpo dei reati” (così da lui denominato quanto in effetti era “cosa pertinente al reato”, giacchè, “inedita” la “prova” difensiva, priva di giuridicità processuale, mero documento, essa avrebbe solo “accerta”to, il reato, ex art. 253.1 cpp, invece che esserne il mezzo o l’effetto; tanto che il decreto diceva di “presumibi (le) verbale di dichiarazione”, come cennato, e diceva inoltre di “documento necessario all’accertamento dei fatti… ).
Ciò che avverrà, ma solo a sera del giorno che stava per drammaticamente cominciare in Corte di Assise…
5. Al mattino, nel giorno e nell’ora e nell’aula di udienza preposti, l’accusatore giunge, scortato da un ufficiale ed un sottufficiale dei carabinieri, che, peraltro, dovrebbero deporre quali (suoi) testimoni nel processo.
L’ udienza è aperta, egli espone alla Corte che una “prova” difensiva (giuridicamente inesistente, nondimeno, per quanto detto) sarebbe “corpo di reati”, che il difensore avrebbe commesso (dà notizie, in vero coperte da segreto di indagine, che nemmeno la Corte potrebbe apprendere: art 326 cp). La Corte, “ritiratasi”, emette una ordinanza, la quale tuttavia:
non rivendica, davanti l’accusatore ed il difensore (in quel momento rappresentato da un sostituto) la “esclusiva” in materia probatoria dibattimentale;
non eccepisce la irritualità, per digressione dall’area dibattimentale, della azione e della interazione probatoria delle parti;
e (quindi) non impedisce che, queste, si accingano a penetrarvi;
ma:
subito accreditata la prospettazione dei reati e dei loro autori senza nemmeno insospettire dalla non invisibile e non improbabile sua strumentalità alla conservazione della “confessione”;
accreditata (per implicazione) questa e per ciò i reati tesi alla sua vanificazione;
redarguisce il difensore (in persona del sostituto…) per contravvenzione al mandato difensivo (il difensore reagirà alla ordinanza proponendo ricusazione della Corte, per anticipazione indebita di giudizio… la ricusazione sarà respinta…);
e ( ineditamente) impiegando l’art. 106 cpp, regolante la incompatibilità della difesa di più imputati nello stesso procedimento, intima al difensore, in persona del sostituto…, di rimuoverla (una “incompatibilità”, invero, non riconducibile alla anzidetta), annunciandone, in mancanza, la rimozione d’ufficio (e, quindi, la risoluzione forzosa, dal “terzo” – quale la Corte, comunque, è – del contratto, fiduciario, d’opera intellettuale, tra difensore e difeso, con mandato vincolante di rappresentanza e di assistenza processuali, di questo a quello ? Si, a quanto pare…).
5.1 In aula sta l’accusatore, stanno l’ufficiale ed il sottufficiale anzidetti, da lui chiamati a testimoniare nel processo. Presto renderanno testimonianza, dovrebbero ignorare gli avvenimenti ad essa estranei, potrebbero soltanto adempiere ufficio di testimoni, rapportarsi all’accusatore ed al difensore quali mezzi della loro prova o controprova, non quali oggetti di una prova propria.
Dovrebbero inoltre non comunicare con alcuna delle parti, per il semplice disposto in art. 149 disp att… Quindi non potrebbero compiere (collaterale) attività probatoria per alcuna d’esse. Al punto che, per art. 197.1 d) cpp, è incompatibile con l’ufficio di testimone (oltre altri), chi sia stato “ausiliari(o) del pubblico ministero… “.
Eppure, totalmente alienatisi all’accusatore, saranno da lui espropriati, alle altre parti al giudice ed al processo (benchè appartenenti rigidamente a questo, introdotti che fossero).
5.1.1 In aula sta anche il sostituto del difensore ed un “praticante avvocato” del suo Studio;
stanno anche altri… tra questi, sinistramente premonitrice, “la Stampa”.
5.2 L’ accusatore, colui che ha emesso il decreto di sequestro ma non anche di perquisizione, della cosa, con ciò mostrando, come cennavasi, di sapere dove essa fosse; e che, ciò sapendo, non avrebbe avuto “fondato motivo di ritenere…” (art. 247.1, 352.1 cpp) che fosse presso il sostituto del difensore:
tuttavia lì la cerca, in un “fascicolo” che questi ha accanto (benchè potrebbe riguardare altro processo, anche suo e non del sostituito); e, consegnatagli copia del decreto “in qualità di sostituto d’udienza dell’avvocato…”), rivoltogli invito a consegnare la cosa cercata (invito che, tuttavia, ex art.248 cpp, avrebbe supposto emissione previa del decreto di perquisizione), lo fa perquisire (foglio dopo foglio) minuziosamente dai “testimoni” .
Indi, non trovandola (ovviamente), fa rovistare il fondo della borsa (professionale) lì vicina, pur sapendo ( o dovendo sapere) di attuare, così, una “perquisizione personale” inattuabile perfino sul difensore sostituito, se non nei modi e nei limiti in art. 103 cpp (quelli della “perquisizione locale”, preclusiva della “perquisizione personale”, compresa quella “di persone presenti o sopraggiunte…”, ex art. 250.3 cpp).
Tanto meno, cioè, potrebbe compierla sul sostituto, d’altronde, mandatario “ ad acta”, ex art. 102 cpp, non ad subjectionem corporis – rispetto alla quale, quindi, lo nominerà “sostituto” l’accusatore!-.
5.3 Accusatore che, ora, ha già compiuto tre “perquisizioni”, tutte “personali” (fascicolo e borsa attengono alla persona dell’avvocato, essi, d’altronde, sono strumenti “professionali” tendenzialmente “immuni”, da perquisizione, ex art. 103.2 cpp) o una perquisizione a triplo atto e relativo oggetto.
Peraltro, l’accesso al fascicolo ed alla borsa parrebbe non essere stato da lui colto, quale “perquisizione”, giacchè la “dispone ” dopo esso.
Le perquisizioni, d’altronde, non sono state autorizzate dal decreto di sequestro né da altro apposito (per quanto detto), tanto che non ha potuto esserne “consegna(ta) una copia all’interessato” (art. 249.1.cpp); e ciò implica mancanza del potere, nel perquirente, di “restrizione della libertà personale” (quale effetto e presupposto della perquisizione… ex art. 13.1 cost.).
Esse , quindi, sorgendo lì per lì, senza “atto motivato della autorità giudiziaria”, senza “decreto motivato” (artt. 13.1 cost, 247.1 cpp) non potrebbero che essere:
“provvedimenti provvisori…. di autorità di pubblica sicurezza…adotta(ti) in casi eccezionali di necessità e di urgenza, indicati tassativamente dalla legge..” (art. 13.2 cost.);
ovvero, “perquisizioni (di) ufficiali di polizia giudiziaria“ procedenti ad esse, ex art. 352 cpp;
le quali, tuttavia, presuppongono casi di “flagranza del reato” o di “evasione”, in specie mancanti, insieme ai casi prima citati;
ovvero, dato il luogo pubblico, nel quale avvengono, presuppongono violazioni di leggi in materia di ordine pubblico (l. 152/’75, art. 4), o di “mafia” (l. 55/’90, art. 27, l. 356/92, art. 23 bis), o di “stupefacenti” (dpr 309/’90, art. 103), o di discriminazione o genocidio (l. 205/93, art. 5) o di immigrazione clandestina (dl 266/’98, art. 12): fuori contesto e materia, palesemente.
E d’altronde, l’accusatore, non è “autorità di pubblica sicurezza” né “ufficiale di polizia giudiziaria”, per ciò, non potrebbe perquisire, ex artt. 13.2 cost ., o 352 cpp, o per qualunque altra delle previsioni normative cennate;
né, come detto, potrebbe perquisire in altra qualità, di “autorità giudiziaria”, per mancanza del decreto ex art. 247.1 (249) cpp, che la avesse conferita.
Per giunta, egli, non perquisisce personalmente, ma è “coadiuvato”…(verbo che non riesce a collocare la mansione, dei coadiuvanti, in quella, prevista, dell’”intervento della polizia giudiziaria, o, se necessario, della forza pubblica…[per] il sicuro ed ordinato svolgimento degli atti ,,,”, ex artt. 131-378 cpp), dai “testimoni” sebbene, (sostituto) procuratore in altra circoscrizione giudiziaria (quella ove ricade l’aula) potrebbe perquisire solo “personalmente”, oppure, delegando il procuratore locale ( art. 370.3 cpp.; la delega, peraltro, richiederebbe la emissione del decreto di perquisizione, tuttavia mancante).
D’ altronde, i “coadiuvanti”, “testimoni-perquirenti” (anfibi procedurali!), non appartengono, pur dovendo (salva “eccezione”, ex art. 58.3. cpp, non richiamata a verbale e tanto meno esposta) alla Sezione di polizia giudiziaria locale, ma a quella presso il procuratore coadiuvato.
E quando, l’accusatore, insistendo a cercare quanto sa che non troverebbe, non avendo alcun motivo per ritenere che, l’avvocato, occulti sulla persona quanto cercherebbe, anzi ben sapendo che non potrebbe occultarlo (il contrario è presupposto della perquisizione in art. 247.1 cpp);
e, ancor prima, sapendo che, egli, non è l’“interessato” (art. 249.1 cpp), tale essendo colui cui sia consegnata copia del decreto ex art. 247.1 cit, e che lo sarebbe se da questo indicato (egli d’altronde non è “interessato” dal decreto di sequestro né dalla informazione di garanzia);
e sapendo che colui che non fosse “interessato”, dalla perquisizione disposta, sarebbe perquisibile solo se presente sul “luogo” (predeterminato) ove fosse eseguita, e se fosse sospettabile che occulti ( ex art. 250.3 cpp) sulla propria persona quanto si cerchi;
sapendo ovviamente che, quella perquisizione, si compie in luogo altro da quello degli “interessati”, e che per ciò non potrebbe estendersi alle persone dei presenti non “interessati”;
quando l’accusatore, dicevasi, insistendo a cercare quanto sa che non troverebbe, nell’ aula di udienza (pilatescamente “ritiratasi” poco prima la Corte), dovendo (se mai avesse potuto) perquisire personalmente, si farà sostituire dai “coadiuvanti” (neppure delegati: art. 247.2 cpp) poiché (annota a verbale) del medesimo sesso (maschile), questi, dell’’avvocato – del quale intenderebbe “rispett(are)” “la dignità” ( non anche “il pudore”, pure in art. 249.2 cit, ma non a verbale?), li trasformerà in autori della perquisizione, senza minimamente titolarli: l’eccesso dalla funzione giudiziaria ricoperta non potrebbe essere maggiore….
5.4 Le medesime perquisizioni nei medesimi modi dai medesimi operatori saranno eseguite anche sul “praticante avvocato”, benché, a lui, non fosse stata neppure attribuita la qualità (passiva) di “sostituto”….
6. Succinta, e indulgente, inquadratura penale:
se la “perquisizion(e) personal(e) arbitrari(a)”, in art. 609 cp, consta di ”abuso”, del “poter(e)” funzionale, che per ciò implica; ove questo mancasse, come sopra è risultato, in luogo della disposizione cennata, “speciale” ex art 15 cp, , opererebbe quella in art 605 cp (sequestro di persona) che protegge la “libertà personale” dalla sua “priva(zione)”, e quella in art 610 cp (violenza privata), che protegge la “libertà morale” dalla “costri(zione) a …tollerare…”.
In concorso formale, ovviamente, col reato di abuso d’ufficio ex art 323 cp.
Pietro Diaz
Viva l’IVA?
Se la giustizia, a quanto si dice, sarebbe un bene di prima necessità, perchè, per averla si paga l’IVA al 21%, quella dei beni di lusso o voluttuari, e non l’IVA al 4% ?